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come ricomporre i pezzi di una responsabilità spesso frantumata 
 

La sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato al risarcimento dei danni i genitori di un ragazzino napoletano  accusato di atti di libidine violenta, ha riaperto una antica polemica sulle responsabilità educative. I genitori sostenevano di aver cresciuto il figlio dandogli "una buona educazione" e "mandandolo a scuola": la responsabilità dei suoi comportamenti illeciti andava cercata soprattutto nella scuola che si era dimostrata incapace di educarlo. La replica dei docenti si può così riassumere: finalità prioritaria della scuola è l'istruzione, se si forza l'interpretazione del suo ruolo trasformandola in contenitore residuale di tutte le problematiche sociali, se ne snatura la funzione e le si attribuisce un peso subordinato alla famiglia. La scuola può anche fornire orientamenti educativi, ma questo in ogni caso non significa che debba insegnare la disciplina della "non violenza".
Come si può ben vedere, il dibattito è aperto, e chiunque, genitore o insegnante, sa che sono infiniti i casi, gravi e meno gravi, in cui il rimpallo delle responsabilità acquista toni duri di una polemica senza fine. Ma il problema si complica ulteriormente se si considera il complessivo contesto sociale in cui la famiglia è inserita. Mi riferisco al gruppo di paese o banda di quartiere che esercitano un vero e proprio strapotere, impongono regole diverse, "forti" e rappresentano l'unico credibile modello con cui l'adolescente vuole identificarsi. Quando questo processo è avviato, sia la scuola, che non intende costruire un riferimento prioritariamente educativo, sia la famiglia che spesso resta solo un riferimento affettivo, sono completamente fuorigioco: il coetaneo diventa l'unico educatore dell'adolescente che vuole svincolarsi dall'influenza sia dei genitori che degli insegnanti.
Credo che sia opportuno operare delle distinzioni nella discussione.
Chi ha voce nel processo di crescita dei minori deve contribuire ad elevare la qualità dell'intervento educativo. Le responsabilità della famiglia sono ovvie, ma la scuola non può trincerarsi dietro il suo compito primario di istruire: le infinite iniziative, in ogni zona del Paese, di Presidi e docenti per prevenire l'abbandono scolastico, rappresentano un intervento serio di prevenzione anche del rischio di criminalità minorile.
Ma altra cosa è riflettere in un contesto più ampio sulla questione posta dalla sentenza della Corte di Cassazione della punibilità dei genitori per reati commessi dai figli. La decisione ci sembra giusta sotto ogni aspetto.
Da un lato infatti il concetto giuridico è inequivocabile: i genitori sono responsabili dei figli fino al compimento dei 18 anni, la maggiore età. Dall'altro i giudici chiariscono che ciascuno deve fare la sua parte. La responsabilità educativa è nel suo complesso ripartita tra molteplici agenzie, ma sarebbe un grave errore abbassare la guardia sul ruolo fondamentale delle famiglie, favorendo il meccanismo dello scarica barile: i genitori non devono pensare che la scuola possa sostituire la loro funzione.
E con altrettanta convinzione, penso che mai come oggi abbiamo bisogno di essere aiutati. I genitori sono spesso in difficoltà non solo per mancanza di tempo, perché il lavoro li trattiene a lungo entrambi fuori casa, ma perché hanno paura. Non riescono a capire i figli che hanno davanti, non riescono a decodificare i messaggi, il loro linguaggio, i messaggi inespressi lanciati come segnali di aiuto.
In questo senso i servizi sociali, come interlocutori capaci di sostenere la scuola e la famiglia nell'elaborazione di strategie per la prevenzione e il recupero di minori in difficoltà, possono rappresentare un alleato prezioso.
Sergio Tavassi
Presidente Nazionale Cgd