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Roma, 13 marzo 2007 È difficile trovare il filo d'Arianna che consenta una riflessione serena, ma soprattutto capace di proposte responsabili sul fenomeno del bullismo, esposti come siamo, all'assedio dei media che declinano e moltiplicano quotidianamente l'orrore, intrecciandolo ad altri e più complessi episodi di comune e quotidiana violenza se non di criminalità. La prima necessità è quindi quella di ridefinire il fenomeno bullismo ed in subordine, ma solo per necessità espositiva, l'obbligatoria contestualizzazione dello stesso. Bene fa la direttiva ministeriale a dare la definizione della categoria. Categoria, quindi, nota da tempo, indagata per primi da studiosi come Olweus da quasi un ventennio, oggetto di ricerche che hanno prodotto una imponente casistica di buone pratiche. Definizione necessaria, dicevo, perché troppo spesso mentre cresce l'ambizione statistica di misurare i fenomeni di bullismo, si raggruppano a volte indistintamente sotto questa categoria tutti i fenomeni di prevaricazione, prepotenza, ma anche di devianza e disagio rispetto ai quali le forme di potere che gli adulti esercitano (penso a quelle della scuola registro, voto, sanzione, espulsione) rivelano la loro inefficacia. E specularmente cresce la voglia di contenimento se è vero che la reintroduzione del voto di condotta, che confina, determina, definisce atteggiamenti, emozioni, demotivazioni, ritardi che si intrecciano strettamente con il processo di apprendimento, ha incontrato il favore della maggioranza degli educatori -genitori ed insegnanti. E fa ormai parte del common sense la geremiade sui ragazzi sregolati appunto, non necessariamente violenti, trasgressivi, socialmente disordinati o pericolosi, ma solo incapaci di riconoscere l'esistenza di regole e perciò di rispettarle. Sembra che non siano al corrente dell'esistenza di un galateo sociale diffuso che silenziosamente regolamenta gli scambi sociali, le precedenze, l'uso dei tempi, delle parole, degli spazi sociali. È come se fosse cambiato un dispositivo strutturale, funzionante da generazioni che omogeneizzava il significato dei comportamenti sociali, come se la continuità della trasmissione tra generazioni fosse stata interrotta. Sia pure “parenti stretti” e spesso figli della stessa madre i due fenomeni bullismo e sregolatezza non sono la stessa cosa. Ci rimandano però entrambi ad una necessità di analisi che si muove negli stessi orizzonti. Alcuni giorni fa il presidente dell'ANP dalle pagine del Corriere della Sera rilasciava una dichiarazione dal titolo “Scuola e famiglia in conflitto. Per colpa dei genitori”. Condivisibile la prima affermazione, troppo facile la seconda che rimanda ad un generico orizzonte valoriale e consente solo di accedere ad inutili visioni apocalittiche che non stimolano l'agire di nessuno o meglio legittimano l'impotenza di tutti gli attori. Se queste considerazioni, se le ragioni di questo convegno non corrispondono, come è nelle nostre intenzioni, a fare solo da cassa di risonanza ad un chiacchiericcio sempre più esteso, è necessario ripensare ai luoghi, reali e simbolici, in cui è possibile praticare, condividere, e negoziare e scrivere, un sistema di regole con le nuove generazioni. La strada, la città, la scuola, le istituzioni in genere. L'idea di una genitorialità sociale, di una genitorialità diffusa che da sempre perseguiamo, diventa sempre più necessaria in una società come quella italiana in cui, come un'indagine del CENSIS del 2004 dimostra, il 40% delle famiglie denuncia la difficoltà a tenere il ritmo con altre agenzie educative e lamenta la difficoltà a trasmettere valori positivi, mentre ben il 64% denuncia la solitudine delle famiglie rispetto alle istituzioni sociali. - Un patto implicito di rispetto e cooperazione tra scuola e genitori si è rotto - è vero, molte ne possono essere le cause; in primis la trasformazione della famiglia e dei ruoli parentali che è sotto gli occhi di tutti. Senz'addentrarsi in analisi più squisitamente sociologiche che non competono al nostro osservatorio c'è sullo sfondo un'immagine di padre debole, che è un po' il surrogato del padre assente e che richiamato al suo compito educativo si offre al figlio come un fratello maggiore. C'è una madre forte che rivendica per il figlio l'autonomia, la responsabilizzazione, la socializzazione con i coetanei,che tende promuovere lo sviluppo precoce di abilità e competenze. C'è una sorta di stanchezza pedagogica del genitore tout court che ha rinunciato consapevolmente all'autorità, memore dei danni che un'educazione autoritaria produce. Assistiamo spesso, infatti, ad un atteggiamento di resa da parte dei genitori, ad una generalizzata incapacità a dire di no, il che significa rinunciare ad essere adulto di riferimento pur di non dover sopportare in alcun modo il malessere di dare anche quella piccola frustrazione. Ma c'è di più: questa rinuncia porta ad un'ulteriore forma d'abdicazione: quella ad essere se stessi con le proprie convinzioni, passioni, ideologie, debolezze, subordinando il proprio essere persone reali all'ansia di evitare per i propri figli ogni genere di conflitto. Questo atteggiamento da un lato consegna, senza lottare, i propri figli alla cultura dell'omologazione, alla moda del momento e alla legge del mercato, dall'altra ha riflessi molto preoccupanti sugli stessi processi di identità, se viene a mancare quella dinamica di accettazione/contrasto con le figure di riferimento, che è la strada obbligata del divenire soggetti autonomi. Ma c'è anche da fare una riflessione sulla scuola come luogo dell'esercizio del potere e su come l'immagine della scuola si configuri assai presto nell'immaginario dei nostri bambini come luogo della non accoglienza . Cito - e perdonatemi la quotidianità della fonte - le frasi tipiche di un genitore che accompagna l'ingresso del figlio a scuola: “Finalmente qualcuno ti insegnerà le regole!” o, in modo più indulgente “non potrai fare come a casa: qui ci sono altre regole!” Allo stesso modo la stanchezza pedagogica della scuola dice ai suoi alunni: “Ma nessuno vi ha insegnato le regole?” Ed in questa terra di nessuno cresce anche il potere dei più piccoli che vivendo in un universo mediatico sollecitante, esercitano, essi sì, un digital divide rispetto alla generazione degli educatori che possono imputare ai media in modo generico e confuso grandi ed apocalittiche responsabilità, ma vivono essi per primi l'ammirazione per competenze che non possiedono. È indubbio che la distanza della scuola dagli orizzonti mentali, culturali, antropologici delle nuove generazioni sia oggi giunta ad un punto di guardia. Assai diffusa è la percezione che la scuola non costituisca più lo strumento decisivo di crescita e di promozione personale e sociale; che il sapere «razionale», «scientifico», «sistematico», «riflessivo» tradizionalmente impartito nella scuola sia poco rilevante o, addirittura, irrilevante; che i saperi che valgono nel mondo del lavoro e nella vita quotidiana, anche quando sono impartiti a scuola, vengono ormai autonomamente e prevalentemente prodotti in mondi esterni ed estranei all'istruzione pubblica. Nel mondo della «cultura digitale»: quel complesso di tecnologie, di risorse, di atteggiamenti e di pratiche connessi con l'informatica e con la telematica. Nel mondo apparentemente semplice, divertente e vitale dei media televisivi: della pubblicità e dei nuovi consumi. Nel mondo della tecnica e degli specialisti strumentali: dei saperi dell'impresa, dell'economia, della finanza con un'infatuazione fideistica per la cultura dell'immagine, per il consumo passivo ed acritico dei nuovi saperi, per le abilità empiriche e sperimentali dei nuovi sapienti. Il declino motivazionale nei confronti della scuola affonda le radici anche in questo diffuso immaginario, in questa ‘morbosa’ pretesa di semplificazione dei processi cognitivi. Un declino motivazionale che investe, in primo luogo, le nuove generazioni, ma che non risparmia gli insegnanti e le famiglie. I primi socialmente delegittimati, in quanto il loro originario patrimonio di conoscenze “razionali” “scientifiche”, “sistematiche” è rappresentato come vecchio, noioso e, soprattutto, separato e non funzionale. Le seconde sempre più smarrite e sempre più caricate della responsabilità che i propri figli acquisiscano gli unici saperi considerati necessari: quelli esterni ed estranei alla scuola, quelli che il senso comune dominante prescrive come gli unici veramente utili a districarsi nella vita quotidiana e nella vita lavorativa. Il declino qualitativo e il declino motivazionale rinviano anche ad una più generale crisi della funzione educativa e formativa dell'istruzione pubblica. Per tutta l'epoca moderna e sino alla metà degli anni settanta dello scorso secolo le cose erano andate ben diversamente. Agli intellettuali ed alle istituzioni educative, ai diversi livelli, era stata, invero, affidata la «missione» storica di «creare» prima e «mantenere» poi culturalmente coese comunità e popolazioni assai diverse tra loro e inizialmente unificate solo dalla geografia politica dello “Stato territoriale”. Una «missione» che era, altresì, altamente politica. «Illuminare» queste comunità e queste popolazioni con conoscenze e competenze uniformi ed omogenee, in grado di farne un corpo ordinato ed unitario: una società ed una nazione nell'ottocento liberale, una società solidale ed un popolo nel ‘900 democratico. La centralità istituzionale a lungo detenuta dal sapere illuministico ed umanistico ha qui la sua origine. Il suo statuto e i suoi postulati («autonomia», «razionalità», «scientificità», «sistematicità», «riflessività») si rivelano i più adeguati alla temeraria impresa di unificare le molteplici, frantumate e incomunicanti comunità dell'età premoderna, di trasformarle in una moderna ed inedita macrocomunità sociale e nazionale. Non c'è da meravigliarsi che in questo contesto l'autorità dei “professionisti” del sapere venga rappresentata come indiscussa. Ma la crisi di identità pedagogica della scuola è legata in buona parte alla crisi di identità del ruolo dell'insegnante. Cito da Farnè che troverete tra i materiali in cartellina Dunque, la crisi di identità pedagogica della scuola non riguarda solo l'identità dei saperi che trasmette, ma riguarda anche l'identità dell'essere formatore attraverso quei saperi. Un insegnante, al di là del fatto che insegni matematica o storia, nella scuola elementare o in un liceo, in realtà insegna anche se stesso, cioè la sua persona per come si pone nella relazione didattica è un punto di riferimento positivo o negativo, o più o meno indifferente per una parte comunque significativa nel percorso formativo di una persona, poiché agisce sul suo futuro. Se perdiamo di vista questo, perdiamo di vista uno degli elementi fondamentali del problema educativo; dopo di che, una scuola debole dal punto di vista della propria identità pedagogica e formativa diventa una scuola permeabile a tutto’. Non è inutile ricordare come il cosiddetto contenzioso tra scuola e famiglia abbia la sua maggiore visibilità nel momento della valutazione e spesso i ricorsi dei genitori aumentino la mole di lavoro dei tribunali amministrativi riportando in un linguaggio giuridico storie di normale incomunicabilità che esplodono proprio nel momento in cui andrebbero assunte e riconosciute le reciproche responsabilità educative. Negli ultimi decenni abbiamo assistito al passaggio da una società delle regole condivise a una società dei rischi individualizzati, da una società della continuità e della stabilità a una società del mutamento discontinuo. E a rendere più complesso il quadro di riferimento è la constatazione che il momento attuale è dominato dall'insicurezza, dalla paura: l' ideologia della sicurezza come bene primario da salvaguardare in uno stato d'emergenza planetario può diventare criterio per giustificare ogni genere di limitazione dei diritti fondamentali. È l'individualismo assunto come paradigma della modernità cui ci siamo un po' tutti subalternamente piegati; la crisi dei luoghi di riproduzione sociale, delle identità collettive, della politica come passione civile, hanno fatto il resto. Né è irrilevante notare che, come ci dice l'ultimo rapporto IARD, nei giovani è in crescita la fiducia negli organi di controllo, nei militari e nella polizia insieme all'emergere di alcune priorità come le relazioni amicali ed affettive a scapito dell'impegno collettivo. Una dimensione privatistica e delegante anch'essa. Ma come senza gettare la spugna rifare della scuola con un'espressione spesso banalizzata o sovraccaricata ideologicamente una comunità educante e non un arroccamento antagonista tra corporazioni? La mia associazione ha da anni ragionato sul tema del potere che ho qui già evocato, in un'accezione diversa da quella di comando o di dominio per cui troppo spesso confondiamo l'esercizio di un potere con l'attività di comandare. Il potere, al contrario, corrisponde al poter fare qualcosa, poter esercitare un ruolo; per esempio, poter fare il genitore, ovvero, poter fare il docente vale a dire, poter realizzare il proprio progetto, riconoscere le risorse disponibili e saperle utilizzare. A questo proposito, proprio nel caso del rapporto tra i genitori e gli altri soggetti educativi, ci troviamo a dover compiere un passaggio difficile: quello di passare da un'idea del potere di tipo limitativo ad una concezione del potere, per così dire, “moltiplicativo”. Nel primo caso, il mio potere serve per limitare il potere di qualcun altro: è il caso del genitore che si contrappone alla scuola oppure agisce per porre un argine a chi sembra voler introdurre qualcosa dall'esterno alla famiglia. Ci troviamo all'interno di un modello “a somma zero”, nel senso che ciascuno dei poteri in campo finisce per auto-limitarsi a vicenda. È urgente, al contrario, maturare un atteggiamento verso l'idea di un rapporto tra poteri che si moltiplicano reciprocamente: cosa posso fare perché il mio potere aumenti il tuo potere di aumentare il mio potere, e così via. In questo senso, ad esempio, la questione è come riusciamo a costruire contesti di comunicazione tra gli attori del processo educativo attraverso i quali superare il groviglio di diffidenze reciproche. Nessuno può far nulla da solo e bene ha fatto il ministro affrontando il tema del bullismo e sottraendolo a quel tutto indistinto delle categorie senza tempo per cui “è sempre stato così...da che mondo è mondo...” a mettere in rete nel rispetto dell'autonomia della scuole tutti i soggetti educanti e richiamandoli alle rispettive e non moralistiche responsabilità. Nel nostro caso chiamando a protagonisti anche le associazioni genitori e dil loro sapere in qualche modo “legittimato” e ci auguriamo non solo per una petizione di principio. Da parte nostra chiediamo alla scuola e ai suoi operatori un impegno ulteriore che non va però nel senso di accrescere discipline o campi di competenza aggiuntivi. In una ricerca dell'OCSE del 1997 si sanciva il principio della distribuzione paritaria della responsabilità educativa tra scuola e famiglia. Nessuna delle due istituzioni ha la possibilità di conseguire quantità e qualità dei risultati separatamente. Ne scaturiva una definizione della collaborazione/cooperazione dei genitori nella scuola come “una relazione di lavoro caratterizzata da comuni obiettivi, rispetto reciproco e volontà di negoziare. Ciò implica la massima circolazione reciproca delle informazioni, delle responsabilità, delle competenze e dei doveri di rendere conto. La cooperazione richiede innanzitutto che ogni parte riconosca le specifiche attitudini dell'altra”. In questo modo ci si allontanava dalla rigidità prescrittiva e perciò spesso inattuata/inattuabile di una carta, ma nel contempo si prendevano le distanze dal potere parentale o genitocrazia che viene definito come prospettiva radicale e potenzialmente pericolosa: liberalizzare totalmente la scelta della scuola, ad esempio, può creare la segregazione sociale di intere aree territoriali e di classi sociali. Tre sono gli elementi imprescindibili per la ripresa di un patto con i genitori; mi limito ad elencarli, sapendo che la responsabilità dei singoli può declinarli nel modo migliore e intavvedendo in essi anche la base per un futuro progetto sulla governance della scuola oggi delega importante del governo
Scuola dell'accoglienza quindi dei vari attori in cui il POF non sia il patinato elenco frutto di una sapiente cultura del taglia/incolla; lo statuto delle studentesse non un carta di rivendicazione delle parti, dove la direttiva del Ministero sul bullismo non venga letta solo per la possibile estensione delle sanzioni per gli alunni; dove l'insegnante non sia solo di fronte all'esplodere del caso estremo ed anche il genitore sia fornito di un kit di pronto intervento per riconoscere nei figli segni di bullismo praticato o subito. Non c' è più molto tempo perché ognuno faccia la sua parte. |