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il coraggio
di dire "no"
Viviamo una età incerta: genitori "amici" e
ansiosi, figli insicuri e prepotenti
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oglio
innanzitutto rassicurare i partecipanti e i tanti amici che non hanno perso
nessuna delle 12 edizioni di questo appuntamento, che non intendiamo analizzare
quali trasformazioni coinvolgeranno i nostri figli al passaggio nel 3°
Millennio; queste sono esercitazioni che lasciamo volentieri ai futorologi.
Siamo sollecitati a capire di più cosa sono i nostri figli oggi,
certamente al centro delle grandi trasformazioni epocali che caratterizzano
questa fase della nostra storia; mi riferisco alle trasformazioni della
famiglia tradizionale in una pluralità di nuove realtà familiari,
alle trasformazioni pressoché radicali del mondo del lavoro, al
contatto in età precoce con una infinita offerta di alta tecnologia
multimediale a basso costo che finisce di fatto per diventare un percorso
di conoscenze alternative ai sistemi formativi tradizionali e ancora alla
rivoluzione demografica mondiale in atto con lo scompenso tra la bassa
natalità del nord del pianeta (massima in Italia) e l’ancora alta
natalità del sud il cui effetto inarrestabile sarà certo
la crescita di una società multietnica e multiculturale.
Grandi trasformazioni per ciascuna delle quali abbiamo organizzato in passato un preciso incontro di Castiglioncello anticipando, spesso con una preveggenza di cui siamo orgogliosi, quanto sarebbe accaduto in un futuro non lontano, come avvenne, esempio fra tutti, con il «Bambino bionico» del 1988, sui temi della ingegneria genetica, delle clonazioni, degli uteri in affitto ecc., che sembravano allora (solo 10 anni fa) temi fin troppo avveniristici. Ma oggi abbiamo bisogno di riconsiderare insieme tutte le trasformazioni profonde che hanno coinvolto la nostra società e con essa la vita di ognuno di noi con il riferimento privilegiato agli effetti che direttamente coinvolgono bambini e bambine, perché tutte queste grandi trasformazioni rappresentano il contorno necessario al nostro bisogno profondo non solo di accantonare definitivamente molti stereotipi del passato riguardo all’immagine dell’infanzia, ma soprattutto di cercare di rispondere alla domanda crescente di genitori e insegnanti di capire meglio chi è il bambino con cui viviamo quotidianamente. In questo senso «Il bambino supernovo» prosegue la riflessione già avviata due anni fa con «Il bambino cattivo», non solo perché, dobbiamo dire senza troppa fatica, è stata demolita l’immagine «fanciullo» buono per definizione, ma perché in quel convegno portammo alla luce il fenomeno dell’aggressività infantile e del bullismo (nuovo non certo nelle manifestazioni ma nell’estensione e nell’età precoce), che ci risulta peraltro in continuo aumento e che imponeva una riflessione sui meccanismi comportamentali e relazionali che potevano essere riconosciuti come cause di un fenomeno che gli insegnanti della scuola elementare prima di tutti ci hanno aiutati ad individuare. Eccoci dunque al perché di questo Incontro. Abbiamo bisogno tutti di iniziare, dico semplicemente iniziare, un progetto ambizioso proprio perché estremamente complesso Il progetto consiste nell’identificare cosa veramente c’è di nuovo nel bambino «normale», quello in carne e ossa che vede la TV tutti i giorni, va a scuola, ha a che fare quotidianamente, ma sempre diverso a se stesso nei tempi della sua crescita, con i genitori, con gli altri adulti, primi fra tutti i suoi insegnanti, e con i suoi piccoli amici. È determinante oggi saper distinguere cosa c’è di veramente nuovo, ad esempio nelle relazioni parentali o nei processi cognitivi o nelle patologie, da ciò che appare invece un elemento di insondabile diversità rispetto al passato e che invece altro non è che l’ombra lunga delle ansie e delle incertezze personali e collettive che gli adulti proiettano sul bambino quale incarnazione visibile, a portata di mano del loro stesso futuro vissuto con profondo timore. Bisogna anche considerare che, se l’operazione di rimozione dei propri timori è possibile a livello personale nascondendoci dietro l’urgenza della quotidianità, tale meccanismo non funziona di fronte al superiore imperativo della responsabilità che ha come effetto di scaricare incontrollabili componenti ansiogene proprio sul bambino, vittima inconsapevole perché certo non ha alcuno strumento per poter elaborare a sua volta tutte le ansie e paure che l’adulto gli riversa. A questa indagine e a questa distinzione sono finalizzate tutte le relazioni di questi tre giorni con riferimento al bambino non solo nella dimensione interpersonale, ma anche in quella collettiva, paradigmatica della società in trasformazione. Allo stesso scopo sono diretti i lavori dei workshop che proporranno una riflessione comune non su «casi emblematici» come è avvenuto in passato, ma su alcune concrete esperienze e progetti su temi che riguardano da vicino la vita dei bambini e delle bambine: i processi cognitivi, la salute, la televisione, il tempo libero, le diversità in termini di handicap, di etnia e di genere. Sentiamo dunque l’urgenza di portare a questo Incontro un contributo di riflessione su un tema che come associazione ci appartiene in maniera particolare: mi riferisco al fenomeno ormai generazionale, e che abbiamo verificato sempre più ampio negli ultimi anni, della rinuncia dei genitori a svolgere il loro ruolo, convinti che questo sia una chiave di lettura determinante per comprendere molti comportamenti apparentemente indecifrabili dei nostri bambini. Sino ad una trentina di anni fa la funzione educativa dei genitori era considerata soprattutto una funzione repressiva, dovendo essere funzionale al perpetuarsi di un modello istituzionale di famiglia e di società che non poteva sopportare alcun pericolo di deviazione. In questo senso coerentemente l’educazione imponeva processi rigidi nella costruzione dell’identità di genere: i maschi dovevano diventare uguali al padre, le femmine uguali alla madre e perpetuare questi ruoli dentro e fuori la famiglia. Contro questo modello, molte persone anche tra quelle oggi presenti, lottarono allora con grande passione determinando un superamento senza rimpianti. Oggi, però, si fanno strada diverse tendenze educative sulle quali è necessaria una riflessione critica. Una tendenza molto diffusa che chiamo per semplicità «del ribaltamento» è quella che rifiuta con forza la sola idea che si possano ripetere meccanismi repressivi come quelli sofferti in prima persona o recepiti dalle testimonianze degli adulti di oggi, bambini di allora. Il che è certamente valido per un adolescente, ma diventa un atteggiamento addirittura grossolano se esteso a un bambino. Bisogna tenere ben presente che i bambini cambiano all’inizio di mese in mese e poi di anno in anno e non possono essere considerati uguali a se stessi. L’atteggiamento educativo deve continuamente adattarsi a questa crescita, per non generare una sottile, ma ugualmente grave forma di negazione dell’infanzia, che consiste nel non accettare il loro diritto ad essere piccoli. Dare il limite alle manifestazioni di onnipotenza dei piccoli significa rispondere alla richiesta che la maggiore responsabilità dei genitori ponga dei confini: è nelle regole di cosa si può fare e cosa no che il bambino può trovare un momento rassicurante. Sembra invece si stia affermando una generalizzata incapacità a dire di no, il che significa rinunciare ad essere adulti di riferimento pur di non dover sopportare in alcun modo il malessere di dare anche quella piccola frustrazione. Ma c’è di più: questa rinuncia porta ad una ulteriore forma di abdicazione: quella di essere se stessi con le proprie convinzioni, passioni, ideologie, debolezze, subordinando il proprio essere persone reali all’ansia di evitare per i propri figli ogni genere di conflitto, temendo le «sofferenze» che potrebbero ingenerare. Ma questo atteggiamento da un lato consegna senza lottare i propri figli alla cultura della omologazione alla moda del momento e alla legge del mercato, dall’altro ha riflessi molto preoccupanti sugli stessi processi di identità, se viene a mancare quella dinamica di accettazione/contrasto con le figure di riferimento, che è la strada obbligata del divenire soggetti autonomi. Questo comportamento che già in passato abbiamo definito «comportamento di resa» ovvero di rinuncia alla funzione di guida propria della funzione genitoriale si caratterizza per il fatto che confonde le tappe dell’autodeterminazione. È importante capire che nei primi anni di vita un bambino e una bambina non possono decidere e fare tutto ciò che vogliono, ma è anche vero che non si possono dare divieti immotivati e casuali. È in questo senso importante, perché le regole o autodiscipline si formino, sapere che è decisiva la quantità e non solo la qualità del tempo che dedichiamo ai nostri figli, come pateticamente continuiamo a raccontarci a nostra giustificazione. È solo così, con un ruolo di riferimento pienamente vissuto, che possiamo sperare di avere un bambino che in futuro sia in grado di autodeterminarsi. Le conseguenze del «comportamento di resa», che si riflettono in negativo sul bambino «supernovo», sono da esaminare con attenzione. I bambini, soggetti rari e preziosi con la natalità ai livelli minimi, quasi sempre figli unici di genitori che tornano a casa stanchi e desiderosi di evitare ogni sorta di conflitti, capiscono in breve tempo che possono fare tutto ciò che vogliono. Chi non ha assistito a estenuanti trattative sulle cose da fare, ad esempio se vogliono andare a dormire, da parte dei genitori che di fatto li lasciano soli, poiché, sottolineiamo ancora, i bambini non hanno alcuna possibilità di autolimitare il proprio comportamento? Le conseguenze non sono trascurabili: innanzitutto prima o poi sarà la realtà, e molto più duramente, a dare quei «no» che i genitori non hanno saputo dare. E ancora si prepara un impatto negativo con la scuola facendo trovare il bambino di fronte ad obblighi e regole non conosciute prima e quindi intollerabili, creando seri problemi agli insegnanti che si trovano davanti a comportamenti di assoluta indisciplina e aggressività che devono affrontare spesso con priorità rispetto all’insegnamento stesso. Infine quei genitori che non danno regole all’interno della famiglia appagando la loro ansia di non dispiacere, all’esterno richiedono invece prestazioni eccessive timorosi di ogni possibile rischio, scandiscono il tempo libero dei loro figli con continue attività sempre controllate da adulti, per poi lasciarli soli, al ritorno nelle mura di casa, davanti alla televisione. Insomma ancora una volta il quadro che scaturisce in maniera allarmante è la rinuncia al ruolo di guida in prima persona, di rinuncia alla funzione educativa, che trova come inconscia compensazione a questa assenza di ruolo la tendenza a sovraccaricare di giocattoli di ogni tipo il bambino e la bambina, sempre troppi, quasi sempre non adatti rispetto alla loro età, e sempre più orientati a farli giocare da soli, (non è un caso d’altra parte che tutte le agenzie pubblicitarie si rivolgono direttamente ai bambini, in qualità di consumatori capaci di imporre direttamente gli acquisti). Si registrano ancora fenomeni che descrivono situazioni del tutto nuove rispetto al passato ancora recente come la precoce anticipazione della pubertà e dell’adolescenza che non può non essere collegata a un profondo cambiamento dello stile di vita dei bambini che anticipano il bisogno di definire la loro identità sessuale. Accettando questo fenomeno come dato di fatto, e lasciando ad altri esperti l’approfondimento delle possibili cause, si conferma ancora una volta la necessità che i genitori non abdichino alla loro funzione, non si tratta solo di saper ascoltare e di saper agire quando questa fase così importante inizia, si tratta di essere presenti in questa età che possiamo chiamare anche l’età dell’incertezza, in cui il ruolo genitoriale consiste nell’aiutare i figli a diventare grandi, di sostenerli rispetto ai rischi che necessariamente si corrono per poter crescere e rendersi autonomi, di tagliare piano piano in termini psichici quel cordone ombelicale che teneva stretto a sé il proprio bambino. Non serve il genitore amico, la concessione subito di libertà totale, perché anche così, ancora una volta i figli vengono lasciati soli nel momento più difficile della loro crescita. E ancora bisogna accennare alla situazione diciamo supernova, ma anche superitaliana, stando alle statistiche europee, del protrarsi fin oltre i trent’anni della permanenza a casa dei figli diventati ormai adulti. Se ne è attribuita la causa al blocco del mercato del lavoro e alla conseguente disoccupazione soprattutto ai livelli più alti di istruzione. Sono invece convinto che questa analisi è vera solo parzialmente, anche perché negli altri Paesi europei i tassi di disoccupazione sono confrontabili con quelli italiani. Riflettiamo solo alla possibilità che questa prolungata permanenza non sia dovuta da un lato a quel meccanismo di protezione ovattata verso l’esterno che caratterizza questa generazione di genitori ansiosi, e se, per altro verso, non stiamo assistendo ad una formazione di ragazzi stimolati, sensibili, intelligenti, ma anche psicologicamente molto fragili, timorosi di confrontarsi con la realtà di un lavoro non facile, con un processo verso l’autonomia dell’età adulta che i genitori, proprio loro, non hanno aiutato a compiere. È nostra convinzione che comunque, in nessun caso, si possono dare consigli su cosa si deve e non si deve fare, ricette precostituite ad uso e consumo del buon genitore. L’impegno educativo richiede una grande elasticità ad un continuo cambiamento perché diversi sono i bambini tra di loro e diversi sempre nella età della crescita. Ciò che si può fare è solo aiutare i genitori a riflettere sul loro ruolo. Siamo convinti, lo diciamo con forza a conclusione di questa introduzione ai lavori dell’Incontro «Il bambino supernovo», che si tratta di un compito grande e fra i più difficili, ma che è forse una strada obbligata non solo per capire meglio noi stessi e i comportamenti indecifrabili dei nostri figli, non solo per prevenire il vuoto e la disperazione di tutti i ragazzi che non si sentono all’altezza di confrontarsi con la vita, ma per poter semplicemente sperare di avere vissuto e lavorato per delle nuove generazioni che meglio delle precedenti sappiano contrastare le spinte e le lusinghe dell’omologazione ai poteri forti, sia politici che commerciali, come condizione di laicità e democrazia nonché di libertà sia individuale, che collettiva. Questo è il lavoro che ha caratterizzato negli anni il Coordinamento Genitori Democratici, questa è l’eredità che lasciamo a chi continuerà questo difficile impegno dopo di noi. Sergio Tavassi
presidente nazionale Cgd
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