CONVEGNO
ERICKSON
Anna
Pace
coordinamento
genitori democratici nazionale
(trascrizione
dell'intervento – bozza non corretta)
" La scuola
è aperta a tutti " ( articolo 34 della costituzione)
E improvvisamente
un giorno le persone al loro risveglio presero coscienza !
Di cosa vi chiederete?
Delle questioni
sociali!
Dal cielo (metaforico)
incominciarono a piovere scritte e disposizioni di legge su: Famiglia,
scuola e servizi più o meno socio e/o sanitarie.
La famiglia non
è più la famiglia ma le famiglie, come se miracolosamente
si scoprisse che da un "ieri" indefinito ad un "oggi" le tipologie di famiglie
aumentassero senza preavviso, un po' come i terremoti - che sai che esistono
ma non sai mai quando arriveranno nella tua città!
La Scuola: improvvisamente
si scopre che la scuola non può più essere quella del passato,
dove i bambini non venivano considerati portatori di identità, cultura
e saperi, ma solo "oggi" dovrà trasformare la sua ottica.
I Servizi, devono
andare al di là della loro dimensione di cura e occuparsi di Prevenzione
a 360 gradi.
E' come se la
nostra Italia non avesse mai lottato per i principi sacrosanti sanciti
dalla costituzione più di 50 anni fa.
So che il mio
è un inizio provocatorio, ma mi rendo conto che in me c'è
un grande timore. Il timore che tutte le normative che regolano le tre
principali istituzioni: famiglia, scuola, servizi, rischino di apparire
"formalità" anche se supportate da ricerche, dati, da principi sacrosanti
e progetti altrettanto sacrosanti, senza che ci sia una vera cultura del
cambiamento.
In un articolo
di alcuni anni fa, curato da più autori, che trattava il problema
della cronicità, trovai una nota interessante che vi voglio riportare:
"la cronicità ha a che fare sociologicamente con la costruzione
sociale e normativa del mondo sociale. Anche se la cronicità non
è pura invenzione sociale, gli aspetti "biologici" (nel senso più
lato del termine) giocano una parte importante, ma essi non hanno un ruolo
indipendente dai modi sociali con cui il contesto sociale li rende significativi
e li affronta. In altri termini non possiamo concepire la cronicità
se non attraverso una coscienza sociale e un linguaggio comune che la costituiscono
e la legittimano in quanto tale."
Quando nacque
la legge quadro 104, sull'assistenza, l'integrazione e i diritti delle
persone handicappate, in E. Romagna molti bambini frequentanti la scuola
dell'obbligo, diventarono portatori di un handicap. Praticamente, tutti
coloro che andavano incontro ad un insuccesso scolastico avevano diritto,
e per loro era pretesa, una certificazione che permettesse di usufruire
di un sostegno. Ad un certo punto l'handicap non aveva più definizioni
precise. Bastava andar male a scuola per aver diritto ad un insegnante
di sostegno. Negli ultimi anni con i tagli imposti dalla Finanziaria, si
è riscoperto che i portatori di handicap sono una categoria ben
definita e che le disabilità scolastiche non sempre sono sinonimo
di handicap; si è anche scoperto che la scuola non può continuare
ad esistere basandosi su vecchi assunti di base, ma deve cambiare se vuole
diventare realmente la scuola di tutti e per tutti. Ma cosa abbiamo scoperto?
che ad anni dalla L.104 l'integrazione scolastica è ancora una mera
astrazione per i portatori di handicap e per tutti i bambini che non si
adeguano ad una norma che non esiste se non nella mente di qualcuno. E
ci sono bambini che non appartengono a nessuno - perché non inquadrabili
in alcuna normativa che li tuteli. Non sono né portatori di un handicap,
ma nemmeno integrabili in una norma. Sono i bambini che più spaventano
le istituzioni scolastiche e quelle sanitarie, i figli di nessuno. Sono
i "diversi" riconosciuti, ma non tutelati: diversi perché immigrati,
perché figli di famiglie disarmoniche, perché hanno disabilità
che la scuola non ha o non vuole avere strumenti per compensare. Un bambino
con un handicap riconosciuto è un bambino che ha almeno la possibilità
di usufruire di un sostegno (anche se molto ci sarebbe da dire sull'utilizzo
dei sostegni), un bambino diverso dalla norma non è collocabile
né per la scuola e nemmeno per i servizi che devono e possono decidere
di metterlo nella categoria dei "certificabili" o "non certificabili",
e indipendentemente dalla scelta che viene effettuata, sappiamo bene che
il suo destino scolastico verrà in qualche modo segnato. Ed è
per questo che prima ho detto che la "cronicità" al di là
degli aspetti "biologici" è anche una costruzione sociale e normativa
del mondo sociale. Se partiamo dal presupposto che il mondo debba dividersi
in due ogni volta che sia necessario rivendicare lo stato di dignità
di ogni persona, esisteranno delle categorie pro e contro, delle persone
capaci e altre non capaci perché portatori di qualche disabilità,
esisteranno i potenti e i meno potenti, gli aventi diritto e i non aventi
diritto...... esisteranno persone che rivendicheranno un diritto perché
c'è una normativa che li tutela, ma nello stesso tempo esisteranno
altre normative che renderanno più fumoso il principio alla base
di una legge. E in uno stato di rivendicazione esisteranno le persone che
rivendicano e quelle che si difendono dagli attacchi applicando altre normative
che tutelino il loro operato, e così di seguito.
Credo fermamente
che sia importante mettersi insieme per riuscire, ognuno nel rispetto delle
proprie competenze, a trovare soluzioni reali e realizzabili per i nostri
figli, al di là di ogni differenza.
Credo ad esempio
che una programmazione didattica vada pensata per tutti, perché
ogni bambino è "diverso" perché unico.
La strada della
selettività, quella per intenderci che intravede e imposta le risposte
al disagio e all'inabilità esclusivamente tramite l'erogazione di
interventi e aiuti diretti a compensare le carenze e i limiti di una determinata
categoria di individui, conduce inevitabilmente ad una soluzione costosa
e inefficace. Costosa, perché destinata per sua natura a rincorrere
una casistica inesauribile di situazioni patologiche, dai contorni incerti,
praticamente sconfinata, in cui il normale si sovrappone al patologico,
l'estemporaneo e il contingente a ciò che è definito e permanente.
Ma soprattutto inefficace, dal momento che il bisogno, qualunque bisogno
che riguarda l'uomo in società, non può essere assunto come
qualcosa di isolato, posto nel vuoto, come qualcosa di isolato, posto nel
vuoto, come una grandezza autonoma, indipendente dal contesto relazionale
più ampio in cui si colloca.
Collaborare è
la parola d'ordine.
Collaborazione
tra scuola e famiglie, famiglie con bambini "difficili", portatori di handicap,
normodotati e/o superdotati.
A scuola i nostri
figli trascorrono ben 40 ore settimanali, ma ben più ore e più
anni li trascorrono in famiglia. E sia la famiglia che la scuola sono referenti
educativi importanti per loro.
Con l'autonomia
agli istituti scolastici si chiede una maggior trasparenza nei confronti
della loro clientela. Il fatto che questa trasparenza prenda forma di concreta
partecipazione dipende dalla pressione che i genitori esercitano nei diversi
paesi e dal grado di democrazia maturata in ogni società. Inoltre
è sempre più sentito da tutte le società l'esigenza
di migliorare la formazione dei giovani, a partire dal presupposto che
l'aiuto e il coinvolgimento della famiglia, e sottolineo, di tutte le tipologie
di famiglia sono fattori importanti se non indispensabili.
Ma qual è
la giusta misura di una collaborazione che non ponga in disequilibrio il
sistema educativo? Dove sta la legittima frontiera tra i poteri dei genitori
e i poteri dei legislatori, degli amministratori, del corpo insegnante,
dei capi di istituto?
Una recente ricerca
del OCSE "i genitori partner della scuola", rivela che i rapporti tra famiglia
e scuola sono complessi e che questa è la premessa da cui bisogna
partire, poiché da ogni punto di vista (del politico, del legislatore,
dell'insegnante, del genitore, dello studente) la realtà quotidiana
è una concreta cooperazione nella scuola, ma fatica nelle forme
e nelle relazioni. Non c'è paese nel mondo che non riconosca - in
tanti fin dal dettato costituzionale - che i genitori e la famiglia sono
i primi educatori, responsabili della socializzazione dei figli nella prima
infanzia, così come del bagaglio intellettuale e affettivo da cui
la scuola e la collettività potranno partire nel momento in cui
il bambino si avventurerà fuori casa. La scuola e la famiglia coesistono
di regola in tutte le collettività locali: l'educazione, la socializzazione
e la formazione si iscrivono in questo triplice contesto. Perché
dunque è così difficile il rapporto tra la scuola e le famiglie?
La ricerca OCSE
fornisce una risposta che nella sua ovvietà, conforta: i genitori
non sono tutti uguali. Ce ne sono di battaglieri, polemici, inutili, per
non dire "diseducativi", altri sono collaborativi, preparati, indispensabili
per potenziare i risultati scolastici.
"i governi non
devono pensare che tutti i genitori abbiano gli stessi desideri o che le
aspettative dei genitori coincidano con la situazione considerata come
desiderabile dai decisori politici. Ci sono genitori che si interessano
solo del proprio figlio, che assegnano valore solamente a un dialogo personalizzato
e individualizzato, talvolta approvano addirittura certe forme di segregazione
se esse rappresentano un beneficio per il proprio figlio......." e il rapporto
continua descrivendo altre tipologie di genitori.
E allora, ci si
chiede, coinvolgerli si può?
Il coinvolgimento
della famiglia nella scuola corrisponde idealmente a una stretta collaborazione
tra genitori e insegnanti che implica aspetti operativi, ma che ha il suo
più alto significato nel permettere ai genitori e insegnanti di
confrontare le loro opinioni, le loro esperienze, le loro considerazioni
e strategie - reciprocamente insostituibili - per l'educazione dei giovani.
Genitori e insegnanti hanno qualcosa da imparare gli uni dagli altri: hanno
bisogno di comunicare, poi possono lavorare insieme.
La ricerca OCSE
afferma ancora: "quel che occorre è un contratto tra la scuola e
la famiglia, che implichi principalmente un Paritario reciproco riconoscimento."
Un contratto è preferibile a una carta anche perché molti
paesi hanno sperimentato l'inopportunità di un modello rigido e
prescrittivo dei comportamenti richiesti ai genitori nella collaborazione
con la scuola. Una recente ricerca inglese ha dimostrato che è addirittura
più importante il processo di negoziazione al contratto vero e proprio,
poiché è nella discussione e nel confronto - prima del contratto
- che si possono migliorare i rapporti, precisare le aspettative e far
comprendere che la scuola - nessuna scuola - può assumersi da sola
tutta la responsabilità educativa.
Quello che mi
appassiona maggiormente di tutto questo dibattito è che si parla
di "responsabilità educativa" e non di Programmazioni didattiche
più o meno "speciali". Questo per me è molto importante perché
permette di spostare l'ottica che fa della scuola il "luogo dei saperi
curriculari" e la famiglia "il luogo dei saperi affettivi".
Se parto dal presupposto
che ogni bambino, attraverso una collaborazione stretta tra le persone
che "incontra" nella scuola e la sua famiglia ha il sacro diritto all'educazione
("ex-ducere", condurre fuori)), posso finalmente pensare ad una società
che si pone prima di tutto il rispetto e la tutela della dignità
di tutti, nel rispetto della loro diversità.
Posso pensare
che sia possibile "cambiare" e/o trasformare le programmazioni didattiche,
perché diventino a beneficio di tutti. Cosa voglio dire?
Semplicemente
questo: è più importante per un bambino inserito in una 1°
elementare imparare a leggere e scrivere entro Natale, o è più
importante per la sua formazione conoscere e ri-conoscere i suoi compagni
di classe con i quali conviverà per 40 ore settimanali, per mesi
e anni di vita?
In altre parole:
"cosa può interessare, soprattutto ai bambini, saper leggere MA-ME-MI.....
se poi non conosce nemmeno i nomi dei suoi compagni?
Quando, come psicologa
devo formulare un Profilo funzionale con insegnanti e genitori per un bambino
portatore di handicap, devo spesso fare i conti con l'assurdità
di alcune finalità che sembrano tali per i portatori di un handicap,
ma scontati per tutti gli altri bambini. Ad es. " Area dell'autonomia sociale"
: "si consiglia di lavorare per il riconoscimento degli spazi e dei luoghi
della comunità preposti a rispondere alle esigenze- richieste del
singolo individuo..." (es. se ho bisogno dello zucchero so dove andarlo
a comprarlo, se ho bisogno di chiedere un libro in prestito so che in paese
esiste la biblioteca e so dove è situata.....) ma quanti bambini
normodotati potrebbero avere la necessità di conoscere e usufruire
delle stesse informazioni? Oppure, quanti bambini normodotati preferirebbero
saper usare e usare il computer piuttosto che il quaderno? Quanti bambini
normodotati sono in grado di riconoscere che gli altri sono "altro da sé"
e quindi hanno bisogno di essere guidati nell'accettazione della propria
e altrui diversità? Oppure, perché un bambino normodotato
se nella sua classe è inserito un bambino sordomuto con insegnante
specializzato, non può imparare il linguaggio dei gesti?
Se continuiamo
a pensare che la "normalità" è saper rispettare le tabelle
della programmazione didattica, tutta su base cognitiva, continueremo a
creare dei "diversi - devianti" e a "cronicizzare" l'handicap, se invece
incominceremo a "creare" nuove tipologie di formazione e di cultura potremmo
realmente pensare che la conoscenza reale insieme alla "tolleranza" possa
diventare base formativa non solo per i nostri figli, ma per gli stessi
genitori e insegnanti.
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