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Il Tirreno

6 maggio 2000

Se si mischiano fantasia e realtà
«Il volo dal 4º piano, un tentativo di vivere la favola»
Castiglioncello, gli esperti chiamano in causa i genitori

di Maria Meini

CASTIGLIONCELLO. «Ha tolto le virgolette e si è calato nella favola senza riuscire a distinguere realtà da fantasia». Ma attenzione: per Paolo Fabbri, semiologo all'Università di Bologna, non è il Pòkemon a dover sedere sul banco degli imputati. Le cause stanno dietro. Dobbiamo chiederci il perché - suggerisce - quel bambino non è riuscito, a differenza di altri milioni di suoi coetanei, a distinguere la fantasia (del cartoon) dalla realtà. Potrebbe insomma essere un eccesso di immaginazione, se non rischiasse di finire in tragedia, il volo del bambino romano caduto dalla finestra della sua casa mentre guardava in tivù i suoi cartoni preferiti.
L'episodio è stato al centro della prima giornata del Convegno internazionale di Castiglioncello, quest'anno dedicato alla fantasia, che il Coordinamento dei genitori democratici (Cgd) ha aperto ieri mattina nelle sale del castello Pasquini.
«L'ansia di volare esisteva anche nei bambini di ieri - commenta Angela Nava, presidente nazionale del Coordinamento -. Il problema è che oggi i genitori troppo spesso sono assenti e rischiano di non recepire i segnali di un bambino in difficoltà». Perché, per dirla con Gianni Rodari, un bambino che ha appreso - dai genitori, dagli adulti, dalla scuola - la «grammatica della fantasia» non confonde un mostriciattolo con la realtà.
Brutti, una «schifezza» commerciale - così sono stati definiti i piccoli mostri balbettanti (emettono solo dei segnali) - ma non basta una valutazione estetica «da adulti» per liquidare una moda che ha preso piede dal nuovo al vecchio continente, avverte Fabbri. Una specie di manga per bambini, che promette di rimanere a lungo un gioco-culto. E dunque «i grandi non si possono permettere di ignorarlo».
Professore, è credibile che un bambino voglia imitare un cartoon tentando di volare?
«Non lo escludo. Il problema è arrivare a definire la causa. Nel Seicento all'università di Bologna fu assegnata una tesi nella quale ci si chiedeva se la calvizie poteva provocare la morte. Certo che no, ma allora non lo sapevano. Noi abbiamo un'idea troppo semplicistica della causalità dei media. Mi spiego meglio: ogni volta che un bambino ha un problema diamo la colpa alla tivù. Ma dobbiamo porci un'altra domanda: che rapporto ha con la famiglia, con i compagni, con la scuola».
Dunque dietro l'imitazione c'è un disagio...
«Il bambino non è né matto né malato. Nei bambini il delirio di onnipotenza è normale, vogliono vedere fin dove possono arrivare, esplorano la realtà. Sta agli adulti guidarli, aiutarli a capire, a decodificare. Forse questo bambino ha voluto vivere una favola togliendo le virgolette, cioè cancellando il riconoscimento dei segni che permettono di distinguere fantasia da realtà. Ma il Pòkemon è solo un'occasione, una concausa, come i suicidi degli adolescenti tedeschi ai tempi del Werther. Imitavano l'eroe di Goethe perché avevano un problema che li spingeva al suicidio».


 
 
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