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genitori e non
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leggendo e guardando
per bambola aveva un fucile
 
 

hanno fatto un deserto e l'hanno chiamato pace 

Un libro sincero, obiettivo, amaro. Per un anno e mezzo Flora Nicoletta ha accumulato interviste nelle piccole porzioni di Territori restituite dagli israeliani ai palestinesi e ne ha raccolte una cinquantina in questo volume, attenta a fornirci una vasta gamma di opinioni e una significativa rappresentanza di persone di ogni strato sociale, con le storie più diversificate alle spalle (ex-detenuti, ex deportati, profughi, residenti, ministeriali, poliziotti, ecc.).
L'autrice è una profonda conoscitrice di questo sempre scottante problema medio-orientale (due suoi precedenti libri, Il fuoco della pace. Nel paese dell'Intifada - 1992 e Le pietre dell'Intifada - 1996 ne testimoniano l'interesse e il coinvolgimento) e per questo la sua opera potrebbe utilmente essere adottata come testo dalla scuola dell'obbligo, perché le nuove generazioni imparino a conoscere anche i problemi degli «altri», specialmente dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo, per capire che i loro problemi sono anche nostri.
Il filone di queste interviste è come un fiume che diviene più grande e più importante ad ogni affluente che riceve e sulla corrente impetuosa dei sentimenti che animano tutti gli intervistati naviga il coinvolgimento emotivo di questa giornalista francese che del popolo palestinese condivide le speranze, i pochi sorrisi e le molte lacrime.
In tutte le testimonianze, prima di parlare del presente riaffiorano le passate violenze subite: la distruzione ( o cancellazione?) di più di 400 villaggi, l'uccisione di gente in preghiera e di bimbi all'uscita dalla scuola, le case rase al suolo, gli uliveti distrutti.
E ancora adesso: le famiglie separate mentre continua l'usurpazione delle terre, l'espansione dei coloni israeliani come un cuneo all'interno delle poche zone dichiarate libere, il controllo del commercio, l'impossibilità di avere un porto, un aeroporto, l'impedimento al libero transito per i pendolari che lavorano in Israele.
Allora molte voci si levano a dire: «Auspichiamo la pace, ma è questo il tipo di pace che ci offrono?»
E intanto ai danni fisici e psicologici dei lutti in tante famiglie o della passata detenzione nelle prigioni israeliane per periodi da un mese a 20 anni, con l'aggravio di torture e sadismo, si sovrappone l'umiliazione e il dolore per essere fermati, maltrattati e imprigionati dalla polizia palestinese al minimo accenno di critica all'attuale classe dirigente, in gran parte vissuta all'estero, e che quindi non ha visto scorrere il sangue dei palestinesi uccisi, il sangue dei «martiri» che si pensava avesse un peso, fosse un credito di cui esigere il pagamento, prima di tutto in rispetto e considerazione.
Ci sono naturalmente anche attestazioni di ostinato ottimismo, in special modo da parte di chi è rientrato in patria dopo tanti anni di esilio, baciando la terra al suo arrivo, con un solo desiderio: vivere e morire in Palestina, sposarsi in Palestina, avere un figlio in Palestina.
Abdel Latif Abu Karsh, consigliere legale del Ministero dell'Agricoltura, 6 anni passati nelle galere israeliane e 16 in esilio: «Il futuro non potrà  essere che migliore, perché peggio di così non può essere».
Maria Dakka, segretaria generale dell'Unione Donne nella striscia di Gaza, incarcerata a 15 anni, ripensa a quando (era il settembre nero 1970) discuteva alla pari, in armi, con i compagni di lotta, della libertà della donna e, afferma, «il fucile a quel tempo era la mia bambola». Rientrata dopo 24 anni dalla Giordania, confessa con sereno coraggio: «Oggi qui ci sono dispiaceri, ma anche gioie».
Ma le dichiarazioni amare e di delusione sono più numerose.
Non è senza emozione che leggiamo le affermazioni degli ex combattenti dell'Intifada quando dicono che il popolo palestinese «ha perso i suoi sogni, sogni di liberazione, di ritorno alla Palestina storica, di sconfitta di Israele». O quando definiscono i lembi di terra ora sotto l'Anp (Autorità nazionale palestinese) «un carcere chiamato striscia di Gaza».
Una fiammella di speranza si accende in queste pagine solo notando che moltissimi intervistati, pur partendo da giudizi diametralmente opposti sulla situazione, convengono in una tesi comune: i palestinesi e gli israeliani devono rendersi conto che nessuno di loro potrà cancellare l'altro e che i due popoli devono convivere sulla stessa terra.
Flora Nicoletta ha raccolto questo messaggio e ne ha sottolineato l'importanza, proiettandolo nel futuro.

Flora Nicoletta - I sicomori di Gaza - Edizioni prospettiva - Roma 1998 - pg. 261 - L. 30.000

A cura di Violetta Marconi