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Convegno nazionale - Roma, 14 gennaio 2005 Intervento di Angela NAVA Famiglia e scuola al di là dell’ideologia “Oltre l'ideologia” recita il titolo della riflessione che mi è stata affidata: compito che avverto non semplice. Conservare lucidità di analisi rispetto al pianeta famiglia è compito complesso: esso tocca molti nodi impliciti, svela anche molte ipocrisie. L'aver pedinato con passione per molti anni i sentimenti dei genitori, le loro attese, i loro sogni, i loro bisogni, in particolar modo la loro relazione con il mondo della scuola, ci consente un osservatorio speciale, anche se non specialistico o disciplinare. Ed è oggi necessario mettere a fuoco queste considerazioni quando un familismo pervadente e pervasivo fa da sfondo, pretestuoso ed ideologico appunto, ad impianti legislativi: penso alla L. 53, alla legge sulla fecondazione assistita, ma non solo. Nel caso della scuola, enfatizzando la libertà di scelta delle famiglie, infatti, si apre un varco ad un'interpretazione “liberistica” di intendere il genitore, chiamato non nei suoi ruoli e responsabilità definite, ma come cliente il cui livello di soddisfazione è funzionale all'impresa. La scuola, pertanto, non negozia più senso e significati con la società civile, ma chiede che senso e significati vengano volta per volta attribuiti da coloro che detengono non solo la patria potestà, ma un più forte diritto di proprietà sul minore. Tutto così si legittima: perché il genitore non dovrebbe accedere alla scuola che ha un forte segno educativo simile al suo progetto di vita? Mi sembra che l'erosione del principio di cittadinanza nasca anche dall' appiattimento subalterno a questa cultura diffusa alla quale, però, non 10 basta rispondere che pubblico è bello. Ripercorrendo per grandi linee la storia della scuola in età repubblicana si può facilmente evincere come essa in Italia rappresenti i rapporti di potere, non necessariamente ideologici, dominanti. Se all'indomani della Costituzione alcuni intellettuali laici salutavano l'art. 33 come una vittoria negativa, come cioè un compromesso che avrebbe comportato grande vigilanza per gli anni a venire e altrettanto grande capacità progettuale per “riempire di contenuti formule vuote”, è con il primo dicastero di marca democristiana e cioè col ministro Gonella (1946-51) che appare in tutta la sua prepotenza il tema della famiglia unica educatrice, legittimata a ciò per natura e per mandato divino e di uno Stato garante dell'esercizio di questo diritto per le famiglie. Non è inutile ricordare che l'enciclica “ Divini illius magistri ”del 1929, sfondo teologico cui Gonella si ancorava saldamente, è rimasta fino agli anni '70 punto di riferimento dell'azione dei cattolici nella politica scolastica dei governi di segno democristiano e che sia pure tra mutamenti e sincere rivoluzioni culturali, la famiglia che il Concilio Vaticano II battezzò “chiesa domestica” sia ancora un caposaldo per il pensiero cattolico. Né è forse da considerarsi casuale il ritorno della querelle laicità-laicismo che ha impegnato sui maggiori quotidiani italiani negli ultimi tempi le più note firme del giornalismo. Curiosa necessità del pensiero cattolico di prendere le distanze da polemiche e richiami d'antan su presepi, crocefissi, bonus alle private, asili nido parrocchiali e quant'altro attiene ad una vecchia polemica alla Guareschi solo strumentalmente utilizzata dalla destra al governo. La famiglia, il repertorio di relazioni solo apparentemente private, i temi delle relazioni tra generazioni in quella fase non ottenevano un solido diritto di cittadinanza nel pensiero della sinistra. Una breve incursione ufficiale dell'Istituto Gramsci nel 1964 con un seminario sulla famiglia rimaneva senza seguito. E sarà il femminismo e la campagna referendaria sul divorzio, dopo ritardi ed esitazioni, a far divenire tumultuosamente politico ciò che si riteneva attenesse solo al privato. E' di quegli anni un episodio che la nostra fondatrice, Marisa Musu, amava ricordare. Avendo opposto delle rimostranze ad una donna che strattonava con violenza durante una festa dell'Unità una bambina, si era sentita rispondere con stupore:”non si preoccupi è mia figlia!” In quel mia passava una visione del mondo, un'ideologia, la tranquillità di una relazione di proprietà che spesso la relazione adulto-bambino, genitore-figlio connotava e connota. La stagione della partecipazione produsse gli Organi Collegiali nel 1974. Stagione specifica del nostro paese, quella in cui prendeva forma un modello di stato sociale moderno che individuava nella sanità pubblica, nella scuola pubblica e nella previdenza pubblica i presidi di una sicurezza collettiva ed individuale che avrebbero migliorato le condizioni di vita di milioni di persone. Alla domanda di democrazia diffusa si rispose con un alto grado di rappresentatività politica in molti consigli di gestione, quindi anche in quelli scolastici, individuando nella partecipazione in sé un valore assoluto. Anche nella scuola si è pensato che fosse sufficiente “essere dentro” per gestire meglio, controllandoli direttamente, i processi operativi. Ignorando, nel contempo, la necessità di formazione di competenze specifiche per i genitori, confuse con l'interesse e il diritto conquistato ad avere servizi; così come sono state ignorati gli effetti, in termini di inevitabili reazioni difensive, talvolta inconsapevoli o negati a livello esplicito, da parte degli insegnanti, che spesso hanno sentito minacciata l'assolutezza del proprio ruolo. Tutto ciò ha prodotto, da una parte, chiusure e muri di gomma, dall'altra delusione e frustrazione di fronte ad una rappresentanza legittimata, ma priva di un'effettiva incidenza. Non si può perciò restare sorpresi di fronte alla constatazione del progressivo affievolimento dell'interesse sociale nei confronti della partecipazione scolastica. Esaurito l'entusiasmo iniziale, genitori e studenti si sono ben presto accorti che, al di là del dibattito sui principi, di cui le riunioni erano occasione ricorrente, nel merito non c'era poi la possibilità di contare più di tanto. Sta di fatto che la voglia di partecipare anima ormai una quota molto ridotta dei potenziali interessati; gli organi collegiali, dopo trent'anni, hanno perso la rilevanza originariamente percepita. L'individualismo e la cura del proprio orto sembrano le caratteristiche dominanti dei nostri anni. E non basta a spiegare questo mutamento, o non ci consola farlo, rilevare la radicalità diffusa della percezione della famiglia- rifugio (fenomeno peraltro tipicamente italiano anche in contesti diversi da quelli attuali) o leggere le trasformazioni della famiglia e dei ruoli parentali negli ultimi decenni. Sullo sfondo un'immagine di padre debole, che è un po' il surrogato del padre assente e che richiamato al suo compito educativo si offre al figlio come un fratello maggiore. Una madre forte che rivendica per il figlio l'autonomia, la responsabilizzazione, la socializzazione con i coetanei,che tende promuovere lo sviluppo precoce di abilità e competenze. E' l'individualismo assunto come paradigma della modernità cui ci siamo un po' tutti subalternamente piegati; la crisi dei luoghi di riproduzione sociale, delle identità collettive, della politica come passione civile, hanno fatto il resto. Negli ultimi decenni abbiamo assistito al passaggio da una società delle regole condivise a una società dei rischi individualizzati, da una società della continuità e della stabilità a una società del mutamento discontinuo. E a rendere più complesso il quadro di riferimento è la constatazione che il momento attuale è dominato dall'insicurezza, dalla paura: l' ideologia della sicurezza come bene primario da salvaguardare in uno stato d'emergenza planetario può diventare criterio per giustificare ogni genere di limitazione dei diritti fondamentali. Questo il quadro in cui l'impianto di riforma della scuola si è collocato. Nella legge 53 si reitera la parola famiglia ben sette volte: singolare rassicurazione in un testo normativo che dovrebbe riposare sul dettato costituzionale (art. 30). Necessaria quest'enfasi? Non era forse sufficiente quanto la Costituzione italiana già chiaramente dichiara? A supporto di questa tendenza si esprimono anche la Carta di Nizza e la nuova Costituzione Europea, che comunque correttamente rimandano, dopo l'affermazione di principio, agli ordinamenti nazionali. Perché allora quest'enfasi? Non è difficile scoprire dietro la legge una visione del mondo e della società ben diversa da quella a cui con passione crediamo. Alla proposta di una scuola più asciutta nei tempi (e nelle risorse), con tante materie opzionali per chi vuole e sa scegliere corrisponde l'idea di un mondo di consumatori incalliti in cui aggirarsi alla ricerca dell'offerta migliore o del prodotto di lusso per chi può permetterseli, talvolta anche anticipando nei tempi, a danno di chi credeva di dover partire dalla stessa linea con gli altri. Produttori di una retorica della libertà come liceità sregolata sono proprio quei poteri forti che attraverso l'allentamento dei vincoli normativi e dello spirito pubblico, mirano a conquistare ogni spazio delle relazioni sociali, ad attrarre nella sfera del mercato ogni tipo di beni, anche quelli protetti dalle norme costituzionali, i diritti fondamentali. Si dà quindi il nome e la nobiltà di riforma ad un impianto legislativo che registra e blocca codificandola in norma, la realtà; che seduce, alletta, irretisce il narcisismo ( questo sì, naturale) di ogni genitore che nell'illusione della scelta si sente finalmente artefice del destino del proprio figlio, mentre in realtà si cristallizza ognuno nella sua provenienza sociale. Si liquida definitivamente, e con buona pace della memoria, con un punto a capo, la funzione emancipatrice affidata alla scuola italiana dalla Costituzione e da essa svolto per molti anni per un progetto nuovo che fa della realtà contingente (atomizzazione, scarsa fiducia nel pubblico, emergenza lavoro) un progetto politico. E tuttavia non basta la lucidità d'analisi e la consapevolezza di una corretta lettura: dobbiamo anche chiederci quali bisogni veri e non solo da rimandare al mittente ha intercettato questa riforma E' necessario verificarne l'impatto sul sentire dei più: lo straordinario movimento dello scorso anno e le piazze straordinarie con i bambini e con i genitori che abbandonavano la televisione domenicale per dire che la scuola ed il suo progetto era anche il loro, non può esimerci da alcuni interrogativi. Certo lenisce alcuni pessimismi, ma esige dalla sinistra risposte che non siano solo tatticismi dell'oggi elettorale. Da molti anni la scuola era spesso chiusa ed incapace di produrre un progetto di cittadinanza convinto e comunicabile al cittadino-utente. Specialismi, mission autoreferenziali, corporativismi hanno spesso impedito una reale comunicazione con le famiglie che si sono trincerate in una sorta di astuzia comunicativa: dico quel che serve, scelgo quello che mi è utile. Questo ventre molle è stato intercettato dalla riforma: perché in assenza di asili non posso iscrivere mio figlio in anticipo, perché non farlo anticipare nella scuola elementare, perché ancora, ed è più grave, costringerlo a frequentare una scuola superiore che spesso lo respinge, quando un percorso bricolage ci libera dall'obbligo? Uno sguardo lucidamente retrospettivo deve avere il coraggio di affermare che “la scuola per tutti e per ciascuno” non era pronta ad essere di tutti o di ciascuno ed era fortemente attraversata dalla nostalgia per prassi consolidate e rassicuranti. In quel momento storico hanno cominciato a delinearsi molte insicurezze: quelle dei docenti intaccati nella sicurezza della trasmissione del sapere e nell'esercizio di pratiche docimologiche indiscusse, quelle delle fasce sociali abituate a considerare la scuola diritto per alcuni e non per tutti, quelle delle fasce sociali più deboli, costrette a “perdere” la sicurezza dell'apporto economico derivante dal lavoro minorile senza acquisire, il più delle volte, la sicurezza dell'istruzione per i propri figli che, consegnati a fatica alla scuola, venivano da questa “riconsegnati” alla famiglia mediante diverse strategie espulsive. Se il nodo sta nella relazione insegnamento – apprendimento, è opportuno ricordare che il soggetto che viene affidato alla scuola dalla famiglia è un portatore di diritti . Come alla moviola riemergono e scorrono immagini di giovani studenti protagonisti di efferati omicidi perpetrati nella quiete di mura domestiche “insospettabili” e di aggressioni mortali e non, organizzati all'interno e all'esterno delle scuole, così sovvengono i volti di giovanissimi suicidi per un brutto voto o stroncati da un overdose. Ed in tutte le storie la scuola in primo piano o sullo sfondo, colpevole di disattenzione, di scarso ascolto, distratta, la scuola, percepita, nel diffuso senso comune, come luogo dell'insicurezza , incapace di intercettare e prevenire il disagio, anzi quasi incentivante. Inoltre, uscendo dalle considerazioni sul solo caso italiano, possiamo osservare come ci sia un rinnovato interesse per le famiglie a livello europeo: legittimo chiedersi se questo atteggiamento culturale sia frutto solo di una volontà riformistica, o sia determinato anche dai problemi che sempre più emergono nelle società contemporanee, e cioè dalla fatica di formare i giovani. Se da una parte è evidente evincere una consapevolezza europea , e non solo, che la scuola da sola non può farcela ad adempiere ad una delega sociale sul versante dell'educazione onnicomprensiva come la complessità dell'oggi sembra richiedere, c'è dall'altra il sentore di un'arretratezza del pensiero laico di fronte ad un tema come quello delle famiglie e della loro relazione con la scuola. Mentre cresce l'ambizione statistica di misurare i fenomeni di bullismo, raggruppando a volte indistintamente sotto questa categoria tutti i fenomeni di prevaricazione, prepotenza, ma anche di devianza e disagio rispetto ai quali le forme di potere che gli adulti esercitano (penso a quelle della scuola registro, voto, sanzione, espulsione) rivelano la loro inefficacia. Cresce la voglia di contenimento se è vero che la reintroduzione del voto di condotta, che confina, determina, definisce atteggiamenti, emozioni, demotivazioni, ritardi che si intrecciano strettamente con il processo di apprendimento, ha incontrato il favore della maggioranza degli educatori -genitori ed insegnanti. Si diffonde la geremiade sui ragazzi sregolati appunto, non necessariamente violenti, trasgressivi, socialmente disordinati o pericolosi, ma solo incapaci di riconoscere l'esistenza di regole e perciò di rispettarle. Sembra che non siano al corrente dell'esistenza di un galateo sociale diffuso che silenziosamente regolamenta gli scambi sociali, le precedenze, l'uso dei tempi, delle parole, degli spazi sociali. E' come se fosse cambiato un dispositivo strutturale, funzionante da generazioni che omogeneizzava il significato dei comportamenti sociali, come se la continuità della trasmissione tra generazioni fosse stata interrotta. Se queste considerazioni non corrispondono, come è nelle nostre intenzioni, a fare solo da cassa di risonanza ad un common sense sempre più esteso, è necessario ripensare ai luoghi, reali e simbolici, in cui è possibile praticare, condividere,e negoziare e scrivere, un sistema di regole con le nuove generazioni. La strada, la città, la scuola, le istituzioni in genere. L'idea di una genitorialità sociale, di una genitorialità diffusa che da sempre perseguiamo, diventa sempre più necessaria in una società come quella italiana in cui, come l'indagine del CENSIS dimostra,il 40% delle famiglie denuncia la difficoltà a tenere il ritmo con altre agenzie educative e lamenta la difficoltà a trasmettere valori positivi, mentre ben il 64% denuncia la solitudine delle famiglie rispetto alle istituzioni sociali. Ma soprattutto ripensare in primis alla scuola, partendo allora dalle persone e non dagli individui: questa è la sfida da assumere sapendo che la scuola è allora un versante di una battaglia più vasta che riguarda il mondo del lavoro, dei diritti, delle istituzioni. Ma è un versante decisivo perché nell'esperienza universale della scuola prendono forma i diritti delle persone; è nella scuola che parole come “solidarietà e comunità” possono diventare situazioni concrete. |