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Convegno 
Gli psicologi per la scuola
Perugia 6 ottobre 2000

ANGELA NAVA MAMBRETTI
Presidente nazionale del C.G.D.

     
    Anzitutto ringrazio per l'invito rivoltomi a partecipare al vostro convegno.
    È un invito che mi sembra indichi una direzione nuova nella riflessione (e nell'agire) su questi temi: l'uscita dalle accademie e dall'autoreferenzialità per intraprendere un cammino, quello indicato dalla legge d'autonomia delle istituzioni scolastiche, di una maggiore vicinanza dei cittadini rispetto agli erogatori dei servizi in un reale spirito di sussidiarietà.
    Supero pertanto la sensazione di non appartenenza, riappropriandomi del diritto di cittadinanza che un'associazione dei genitori ha in questo contesto, consapevole del fatto che il contributo che essa può dare è pertinente alla sua specifica esperienza.
    Competenza che un'associazione come il CGD ha conquistato con un'esperienza ventennale leggendo, interpretando, rappresentando i bisogni di quei genitori che sentivano il bisogno di consorziare ansie, bisogni, letture di una realtà sempre più complessa.
    I genitori e la scuola quindi. 
    La scuola dell'autonomia che sembra, normativamente almeno, affrontare la sua rivoluzione copernicana: dalla scuola dell'insegnamento a quella dell'apprendimento. Obiettivo il successo formativo dell'alunno, di ogni  alunno nel rispetto e nell'ascolto dei suoi tempi, anche di quelli ondivaghi dell'adolescenza e non lo svolgimento di un programma, pensato per un alunno «tipo» e quindi inesistente.
    Potremmo tentare di leggere le attese dei genitori rispetto alla scuola. Discorso non semplice. Soprattutto in Italia, dove la scuola, dall'Unità ad oggi, è un luogo simbolico forte, sinonimo ancora per i più d'emancipazione, di possibile conquista di status (il Nord-est è l'eccezione che conferma), è garante d'istruzione e di «educazione». Anche l'asprezza delle critiche al sistema scuola, non fa che confermare la sua pregnanza nell'universo simbolico che connota noi genitori. Anche il suo essere «sovraccarica» di funzioni, d'attese.
    Rispetto poi, alla scuola della riforma, le attese sono ancora più messianiche: la scuola si apre al territorio, si apre ai cittadini, anzi è dei cittadini. In quell'aprirsi c'è tutta la forza del nuovo. Le porte della scuola si erano appena socchiuse, ai genitori almeno, per creare però una comunicazione malata: da un lato le vestali del sapere (conservo il genere, data la massiccia femminilizzazione della professione), dall'altra i genitori, sentiti come potenziali giudici. Una comunicazione pertanto, sulla difensiva, talvolta con punte d'aggressività, mai connotata da un linguaggio di cooperazione.
    Eppure la scuola è il luogo delle relazioni per eccellenza.
    Il vostro convegno s'intitola «Gli psicologi per la scuola» ed in questo per c'è un disporsi al servizio, ad un servizio «negoziato». Un servizio che, pur con molti distinguo, viene incontro ad esigenze diffuse da parte dei genitori.
    Per quella che è la nostra esperienza preferirei che si parli non dello psicologo scolastico, ma del servizio di psicologia scolastica, che si passi insomma dall'idea di consulenza a quella di servizio. L'idea dello psicologo scolastico, infatti, entra a buon diritto in un immaginario fatto di bisogni e desideri, difficilmente riconducibili a chiara leggibilità e che in ogni modo è ancora tutto spostato sul versante della delega. Delega dell'insegnante che, appesantito dalle difficoltà, rimanda ad altri da sé la soluzione d'alcuni problemi, spesso solo metodologici; delega del genitore, che chiedendo consulenza entra però nell'ansia da diagnosi ecc. ecc. Il bisogno di psicologia dei genitori è peraltro inversamente proporzionale all'età scolare dei figli: gran curiosità conoscitiva nel periodo della scuola d'infanzia (forse come fonte per sostenere il proprio investimento educativo), timore di un'impropria invadenza, di uno sconfinamento quando i figli sono più grandi.
    Eppure emergono sempre più evidenti esigenze dal sistema scuola che non possono essere unico appalto della professionalità docente o rispetto alle quali il docente italiano non è sufficientemente attrezzato. Penso all'ingresso massiccio nelle scuole italiane di bambini di altre culture, che troppo spesso sono trattati come bambini in fase d'adattamento e quindi «in transito», ma penso soprattutto alle nuove modalità organizzative del lavoro degli insegnanti: lavoro che dovrebbe uscire dall'individualità, come già la scansione a moduli della scuola elementare ha dimostrato con effetti nefasti, laddove la dinamica del team d'insegnanti non «funzionava».
    Lo star bene a scuola, vecchio slogan dei progetti d'Educazione alla salute, potrebbe perciò connotarsi in modo diverso e il servizio psicologico scolastico essere mirato al miglioramento funzionale della nuova organizzazione. Ci sembra che la cultura dell'organizzazione sia alquanto estranea agli operatori scolastici: gli insegnanti hanno difficoltà ad accettare che ai processi formativi possano essere applicate regole, procedure, vissute come limitanti la libertà d'azione A fianco della sociologia dell'organizzazione, con i suoi modelli anglosassoni che poco ci appartengono culturalmente, c'è l'esigenza di un servizio che faciliti il cambiamento organizzativo, migliori la comunicazione tra tutti gli attori (docenti, non docenti, dirigenti, genitori) del processo. Insomma, come genitori, sentiamo che va sostenuto lo sviluppo organizzativo della scuola perché gradualmente essa possa trasformarsi in una struttura di servizio per nostri bambini e per i nostri giovani (provo ancora un forte disagio, che non è ideologico, al termine utenti, che esclude o riduce il senso più pregnante di cittadini).
    Ed ancora penso al tema assai importante dell'orientamento, sul quale molto ci sarebbe da dire perché la scuola italiana esca dal limbo delle buone intenzioni per diventare pratica operante. Ovviamente non mi riferisco all'orientamento professionale o universitario, spesso appaltato ad agenzie di consulenza psicologica dell'ultima ora, ma al senso più pieno dell'orientamento come conoscenza di sé e del proprio stare al mondo. Col riordino dei cicli, le scelte dei preadolescenti (per quanto abbiano perso il carattere di definitività grazie ad un sistema di crediti formativi) sono senz'altro precocizzate e quindi i nostri ragazzi vanno vieppiù accompagnati nel percorso di conoscenza del sé. Penso alla formazione d'identità di genere forti e serene, in grado di governare i processi in corso di trasformazione dei ruoli sessuali.
    Ma dicevo che sono numerosi i distinguo o i timori che accompagnano le attese dei genitori.
    L'attuale processo di riforma realizza una discontinuità istituzionale e culturale con la scuola del passato: non c'è più un centro che opera scelte d'indirizzo e criteri di gestione, ma una rete di soggetti, pubblici e privati, chiamati ad interagire. Le scuole modificano quindi i loro confini interni ed esterni, stipulano convenzioni, definiscono la loro identità. Ma chi garantisce il genitore o meglio l'allievo delle pari opportunità sul territorio nazionale? Il servizio di psicologia scolastica così inteso sarà appalto delle scuole più ricche, più sensibili a nuove esigenze o sarà realtà nazionale diffusa, pur con le varianti di metodo ed impostazione delle singole convenzioni (per non cadere nell'idea di un servizio di stato, probabile inutile carrozzone)?
    Il problema è o non è di tutta la scuola pubblica?
    Inoltre quali le competenze nuove ed accertate dello psicologo scolastico? Chi mi rassicura rispetto al timore, indotto da esperienze antiche, di vedere surrettiziamente reintrodotta la figura dello psicologo clinico, del consulente che medicalizza la scuola?
    Da ultimo concedetemi una provocazione: che ruolo avrà, se lo avrà, la pedagogia, a tutt'oggi la colf delle scienze sociali?
         
 
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