INTERNAZIONALI DI CASTIGLIONCELLO
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La relazione di Angela Nava pro, la quattordicesima edizione degli incontri, con non poca emozione. Perché essere qui oggi è il portare alla luce questo nuovo bambino, cui ancora una volta gli amici (il Sindaco, l’Assessore, lo staff tutto che si è impegnato con passione e dedizione) del Comune di Rosignano hanno creduto e che insieme alla nostra associazione hanno fortemente voluto anche in tempi così difficili per gli EE.LL; perché significa ancora una volta scommettere sul futuro, giacché interrogarsi sull’infanzia è, da parte di noi adulti, un rispondere ad un’ansia conoscitiva che il futuro appunto vuole prefigurare con l’ottimismo della ragione; perché essere qui insieme vuol dire resistere alla lusinga di accettare l’esistente per quello che è: immodificabile perché difficile da interpretare e da leggere nei suoi segni contraddittori e complessi. Il bambino s-confinato nasce in stretta continuità con l’ultimo incontro, solo apparentemente divergente dalla linea dei precedenti convegni e cioè nasce dal bambino fantastico. In esso ci chiedevamo se il pensiero divergente, creativo, non fosse una risorsa doverosa da incentivare e ripensare come antidoto al pensiero omologante che annulla la diversità d’individui, culture, forme di vita, per un irenico supermarket del consumismo globale cui, per di più, pochi nel mondo hanno pieno accesso. Ragionare sui confini reali e simbolici che i nostri bambini attraversano o dovrebbero essere attrezzati ad attraversare, c’era parso il passaggio logico e morale successivo, specie alla presenza dell’utopia di un mondo senza confini, contrabbandata da molti dopo il 1989. Utopia di brevissimo respiro: l’idea dello stato etnico, il rifiuto dell’altro, la paura della contaminazione, l’esplodere dei particolarismi alla ricerca di un corrispettivo territoriale hanno tragicamente segnato la storia d’Europa e non solo, degli ultimi anni. Da una parte s’inventano nazioni grandi come città, dall’altra enormi agglomerati urbani assomigliano sempre più a stati multiculturali. L’idea di confine ritorna minacciosa e nuovi sono i suoi significati. Senza avere la pretesa di occuparci di globalizzazione (altri meglio di noi ed in altri contesti), sentiamo però che il silenzio ha un prezzo e che per converso mettere in discussione le premesse apparentemente indiscutibili del nostro modo di vivere, ed aggiungerei di educare, può essere considerato il più urgente dei servizi che dobbiamo svolgere per noi stessi e per gli altri. Dividendo il mondo, la politica delle potenze trasmetteva un’immagine di totalità: tutto al mondo aveva significato. Oggi il mondo non appare più una totalità, ma un campo di forze disperse che si manifestano in luoghi imprevedibili, mettendo in moto energie che nessuno sa come arrestare. Alla cartografia tradizionale si oppone una nuova geografia o nessuna geografia: quanto più si dissolve l’idea di stato o essa manifesta la sua debolezza, tanto più nascono dozzine di nuove nazioni, quasi che il crollo della sovranità statale ne abbia reso popolare l’idea. Cresce nel sentire comune un’indipendenza dallo spazio, come libertà dai legami territoriali; lo spazio ha smesso di essere un ostacolo: basta una frazione di secondo, un impulso su di un telecomando per conquistarlo. Vicino e lontano cambiano il loro significato. Vicino non è più il luogo di ciò che è usuale familiare e noto, con cui s’interagisce nel quotidiano, né lontano è lo spazio in cui si entra di rado, lo spazio che racchiude cose sconosciute, dove si temono difficoltà, problemi, pericoli. L’annullamento tecnologico delle distanze ha svuotato lo spazio dei suoi valori consolidati: sempre più assistiamo alla degenerazione dello spazio pubblico in spazio privato, chiuso dietro muri, palizzate, barriere elettroniche, nel timore ossessivo del contagio, del contatto con l’altro interiorizzato come nemico. Da questa idea nuova di spazio sembra emergere un nuovo diritto: quello alla recinzione. Non ci sono più confini naturali, né spazi da occupare; non ci sono limiti perché il limite comporta la dimensione dello spazio e del tempo. Ma è davvero così? Ed è davvero così per tutti? La tecnologia, sfortunatamente, non ha alcun impatto sulla vita dei poveri; la globalizzazione è un paradosso: ha effetti positivi per pochissimi, taglia fuori o mette ai margini due terzi della popolazione mondiale. E’ un esercizio inutile, da vecchi ruminanti insoddisfatti, ragionare oggi di confini, quando sembrano essere categoria archeologica? A noi, che osserviamo quotidianamente i nostri bambini e la loro crescita per discontinuità e superamenti, è piaciuto ostinarci sul senso del confine: perché in un dato momento qualcuno decide di delineare un confine? Com’è vissuto un confine? Quali conseguenze ha una nuova definizione del confine sul nostro ruolo d’educatori? Ed ancora: quali i confini, nuovi e vecchi, che i nostri bambini quotidianamente conoscono? Scrive Claudio Magris: "..i confini muoiono e risorgono, si spostano, si cancellano e riappaiono inaspettati. Segnano l’esperienza, il linguaggio, lo spazio dell’abitare, il corpo con la sua salute e le sue malattie, la psiche con le sue scissioni e i suoi riassestamenti, la politica con la sua spesso assurda cartografia, l’io con la pluralità dei suoi frammenti e le loro faticose ricomposizioni, la società con le sue divisioni, l’economia con le sue invasioni e le sue ritirate, il pensiero con le sue mappe dell’ordine". Sappiamo che il limite svolge all’interno di una cultura e dell’educazione un ruolo fondamentale: evidenzia e rende esplicite le differenze, ci fa capire quando una cosa finisce e l’altra comincia; potrebbe essere il luogo dove si parla, s’inventa ed invece si trasforma nello spazio dell’incomunicabilità, del rancore; tra chi può abitare al suo interno e chi ne rimane escluso, oppure tra chi sta al suo interno, ma è costretto da altri ad andarsene. Progressivamente i visti d’ingresso vengono aboliti, ma non viene abolito il controllo dei passaporti, che forse è necessario per separare coloro per la cui convenienza i visti sono stati aboliti, da coloro che dovrebbero starsene fermi, che non hanno il diritto di viaggiare. Nomadi entrambi ma i primi viaggiano quando vogliono, dal viaggio traggono piacere; i secondi viaggiano da clandestini, spesso illegalmente. Accade ancora che paghino per un’affollata stiva più di quanto gli altri non paghino per la "business class". Li si guarda con disprezzo e, se la fortuna non li assiste, vengono arrestati e deportati al primo arrivo. Turisti o vagabondi insomma, per i quali ultimi si vogliono oggi erigere nuovi muri, chiamandoli con giuridica e farisaica neutralità leggi sull’immigrazione o sulla nazionalità. E’ questo uno dei confini di cui volevamo occuparci in quest’incontro, e non solo per riprendere il tema dell’integrazione e dell’intercultura, ma perché siamo profondamente convinti che se l’attenzione all’altro, alla differenza, alla diversità è nodo cruciale nella crescita dei nostri bambini, è elemento fondamentale e doveroso oggi, quando le classi d’ogni sistema scolastico sono sempre più affollate da altri; quando essi entrano sempre di più a livello anche virtuale, accompagnando le vicende quotidiane di ciascuno di noi attraverso l’informazione dei media; quando siamo ormai abituati a convivere con linguaggi, merci, materiali che hanno origine lontana e che ci raggiungono per farsi usare dai punti più lontani del pianeta. Alla scuola come luogo deputato agli sconfinamenti dedicheremo perciò in questa sede grande attenzione; nei workshop ad essa destinati indagheremo sulle buone pratiche che insegnanti, genitori, enti locali e non solo hanno prodotto, sapientemente sconfinando dall’equazione insegnamento=apprendimento, in questi ultimi anni consapevoli che l’obiettivo non è e non può essere quello della generica tolleranza; consapevoli ancora che faremo della vera intercultura quando ogni educatore si penserà e si situerà all’incrocio di numerose reti di relazione e d’influenza legate a varie appartenenze; rifletterà cioè su quanto siamo plurali noi stessi. Ri-conoscere se stessi è sconfiggere il pregiudizio alle origini. La scuola dei bambini s-confinati deve perciò essere scuola laica, scuola dell’accoglienza per tutti, scuola dai tempi distesi, scuola che investe significative risorse economiche in un grande progetto di cittadinanza, scuola che ripensa alle sue discipline e ai saperi, anch’essi ormai sconfinati, che vogliamo consegnare ai giovani senza alcuna tentazione di tramandare alle future generazioni la cultura e lo stile di vita propri di nuclei di popolazione tra loro distinti dal punto di vista culturale, linguistico, religioso, socio-economico e territoriale come un malinteso federalismo fa oggi temere. A coloro che della scuola italiana oggi stanno disegnando la nuova architettura ed i nuovi saperi, rivolgiamo da Castiglioncello un fermo appello: la scuola che va ridisegnata è quella che consentirà a tutti i bambini di poter conquistare quegli strumenti culturali che permetteranno loro di partecipare con piena cittadinanza alla vita. Per essa ci batteremo con la tenacia e con la passione che ci hanno caratterizzato da sempre. Il diritto/dovere alla cultura rappresenta la base per il patto cittadini-società e la promozione di tale diritto è tra i pilastri della nostra carta costituzionale e non è superfluo ricordarlo: "rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale, che, limitando, di fatto, la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". La diversità, la cultura della diversità, pensata e vissuta quale risorsa, diventa una ricchezza da sfruttare nei complessi processi di crescita della società e dei cittadini, com’esercizio e palestra di vita democratica. La scuola non può essere ridotta alla sola dimensione di "servizio pubblico", né tanto meno di servizio sociale a domanda individuale; la scuola non è, dunque, un bene negoziabile, una merce: è il luogo della cittadinanza, e lo scolaro, lo studente non sono né utenti di un servizio, né clienti, né consumatori. Al centro della scuola si pone il diritto del bambino, di ogni bambino, a vivere in una dimensione pluralista, e questa può essere garantita solo se la scuola, se ogni singolo istituto scolastico, è sede di confronto, è luogo che attiva il confronto. Né la scuola deve essere il luogo che attiva scelte precoci ed irreversibili: non ci sono nuovi assoluti pedagogici o nuove verità rivelate cui i legislatori possano fare riferimento per affermare che si possa disegnare il proprio progetto di vita a tredici anni o poco più. Uno dei confini che vogliamo qui declinare con gli studiosi e gli esperti che saranno con noi in questi giorni, è proprio quello della linea d’ombra che separa l’infanzia dall’adolescenza. Non vogliamo essere anche noi tra quelli che protraggono i tempi della crescita e della responsabilità dei nostri figli, trattenendoli in un’infanzia eterna e deresponsabilizzante da perenni Peter Pan. Già da qualche anno avevamo iniziato una riflessione critica di molti aspetti dell’educazione permissiva che ha caratterizzato il comportamento di tante generazioni di genitori degli ultimi trent’anni, ovviamente senza rimpianti per quell’educazione autoritaria, psicologicamente repressiva e fisicamente violenta in casa e a scuola, contro la quale molte delle persone presenti hanno con passione lottato a quei tempi e continuano a lottare oggi. Se rispetto al passato le possibilità di vita e di relazione si moltiplicano, credo si sia erroneamente trasferita ai figli un’espansione di libertà, di desideri, di possibilità di possedere cose, in antitesi con la necessità di dare un senso del limite rispetto alle pressanti manifestazioni di onnipotenza dei piccoli. ( Sottolineo che proprio l’atteggiamento del genitore amico, in realtà comprende una non trascurabile forma di violenza: essa consiste, non accettando fino in fondo il loro essere piccoli, nel negare ai figli la richiesta che la maggiore responsabilità del genitore debba porre dei confini).Sposare però la tesi che i nostri bambini solo perché più abili e competenti a raccogliere le sollecitazioni delle nuove tecnologie, solo perché padroni di nuove categorie conoscitive il cui spessore e la cui sedimentazione sfugge a noi adulti cresciuti in un diverso universo logico, siano anche più precocemente maturi dal punto di vista sociale ed affettivo, può in modo surrettizio indurre a considerare legittima la richiesta che in Europa ed oggi anche in Italia si avanza da più parti di abbassare il confine di età per la punibilità dei minori. Sventolando lo spettro di un allarme sociale diffuso anche se privo di dati oggettivi di riscontro, usando i media, che già rappresentano il mondo in modo spettacolare suddiviso in criminali e custodi dell’ordine, come cassa di risonanza per delitti atroci compiuti da adolescenti, spostando la paura che evocano nei più in un" lontano" rappresentato da una giustizia poco efficace, si vuole equiparare il reato alla pena da comminare, indipendentemente dall’età di chi il reato ha compiuto. Nella giustizia minorile (della cui necessità di riforma e razionalizzazione siamo peraltro convinti) non ci può essere solo il punto di vista giudiziario: al centro ci deve essere sempre il minore tutt’intero con la sua storia ed il suo vissuto, con il suo diritto al futuro. Ogni minore, non solo quello che avrà dalla sua una famiglia che dietro le porte blindate della separatezza gestirà al suo interno il problema ed il conflitto, pagando quelle consulenze o quelle perizie che ad altri più poveri o stranieri non saranno garantite. Perché comunque, mentre parliamo dei nuovi o rinnovati confini che i nostri bambini devono attraversare non dobbiamo, non possiamo dimenticare che anche nella nostra realtà di "paese ricco" la linea di confine tra ricchezza e povertà rappresenta ancora una barriera, spesso insormontabile, che finisce col segnare i destini degli individui e dei gruppi sociali.( In Italia i minori poveri sono il 16,9% dei ragazzi italiani) Sappiamo anche però che il confine tra il bambino ricco e quello povero è oggi più complesso e sfumato, consiste non solo nel possesso di beni materiali, ma anche nell’accesso alle conoscenze tecnologiche e nella capacità di dominarle. Nuovo confine possibile per il futuro dei bambini, nuova asimmetria tra chi potrà scegliere lavori, comportamenti, stili di vita e chi sarà condannato ad una flessibilità che ha solo il valore dell’incertezza, dell’opzione ridotta al nulla. Né, mentre ragioniamo dei nuovi confini simbolici o reali, dimentichiamo anche per un attimo che migliaia di bambini in carne ed ossa stanno oggi vivendo le tragiche conseguenze di guerre per confini crudeli, voluti da altri, che hanno reso la loro vita priva dei più elementari diritti; caratterizzata da solitudine, abbandono, miseria: bambini assetati, affamati, mutilati. Noi, oggi, siamo impegnati a tentare di sottrarre i bambini dai tanti confini di guerra in cui sono trascinati: non ci si può contentare di dire, come in una delle fiabe balcaniche raccolte da Faeti, "pure questo passerà". Pensiamo, per citarne solo alcuni, ai bambini dell’Afghanistan, ai bambini di Sarajevo, laddove anche una strada è divenuta un confine invalicabile, pensiamo ai bambini palestinesi. Per questi ultimi abbiamo da un anno iniziato la campagna "Per Gazzella", che molti di voi conoscono, per l’aiuto a distanza dei bambini feriti. I tanti che hanno contribuito, i tanti che sono entrati in relazione per fornire un aiuto che non avesse il sapore della beneficenza che salva l’anima ed in realtà non assolve nessuno, ci fanno convinti che il senso della genitorialità sociale che da anni difendevamo sia realtà più diffusa di quanto si creda e hanno dato a noi come associazione la misura del fatto che un numero di persone più numeroso di quanto ipotizzavamo ha, oggi, un rinnovato ed intatto desiderio di esserci, di essere insieme e di partecipare. Tutto ciò ci induce a citare con convinzione le parole del poeta Mahmoud Darwish, scritte a Ramallah nel gennaio di quest’anno: Qui, sui pendii delle colline, dinanzi al crepuscolo e alla legge del tempo Vicino ai giardini dalle ombre spezzate, Facciamo come fanno i prigionieri Facciamo come fanno i disoccupati: Coltiviamo la speranza. Quando vediamo che sempre più giovani sui vent’anni, s-confinati anch’essi, perché difficilmente riducibili ad appartenenze precise, senza imitare fratelli maggiori, hanno ricominciato a cercare, ad essere protagonisti, ad impegnarsi nonostante le astuzie e i cinismi del potere istituzionale, sentiamo che sono nostri figli, sentiamo il senso di un’associazione come il CGD. Sentiamo che il lavoro di tanti nella nostra associazione non è stato inutile, che questi giovani sono anch’essi i tanti bambini di Castiglioncello che qui mi piace ricordare nel loro dipanarsi negli anni, sono il bambino tecnologico, violato, bionico, colorato, bruciato, fuorigioco, on-off, sud, cattivo, supernovo, fantastico. L’essere qui oggi ci dice che il segno era giusto. Domenica si svolgerà la marcia Perugia-Assisi: siamo con tutti quelli che vi parteciperanno. Chiudo, usando la metafora, coniata dal nostro amico Mario Russo, metafora che ci ha accompagnato nel pensare quest’incontro, chiedendo a noi adulti, genitori, educatori, operatori tutti quale ruolo ci vogliamo assegnare per il futuro dei bambini: saremo doganieri, rispettosi delle regole ed attenti che tutti i documenti siano in regola perché nessuno sconfini o traduttori, facilitatori della comunicazione e del passaggio? Perché il bambino diventi davvero sconfinato, capace di essere cittadino del mondo a pieno titolo e del nuovo millennio auguro a tutti noi buon lavoro. |
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