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INCONTRI
INTERNAZIONALI
DI CASTIGLIONCELLO

diciassettesima edizione

il bambino selvaggio

alle relazionirelazioni e documenti



RELAZIONE DI SINTESI SUI LABORATORI TEMATICI
Mario Russo, psicologo Cgd

 

Nelle diciassette edizioni del Bambino di Castiglioncello abbiamo adottato una cifra metodologica molto precisa e riconoscibile - una specie di “format”, per usare un termine della produzione televisiva: alle relazioni, ai resoconti di ricerca, alle tavole rotonde, alle mostre, e così via, sono affiancati, in posizione di grande rilievo, workshop o Laboratori tematici, concepiti per consentire la partecipazione diretta e il confronto tra i partecipanti, attorno alla presentazione di esperienze particolarmente qualificate per il grado di sperimentazione e di elaborazione concettuale .

Qual è, allora, la funzione di questi Laboratori tematici (o di questi workshop) nell’impianto complessivo dei nostri Incontri?

Sul piano della metodologia formativa, fondamentalmente due:

  • arricchire le sistematizzazioni concettuali e le suggestioni interpretative contenute nelle relazioni e nei resoconti di ricerca con la proposta di situazioni maggiormente operative e più direttamente trasferibili nel proprio contesto operativo;
  • consentire a tutti i partecipanti, attraverso la presentazione di esperienze relativamente vicine ai loro contesti di lavoro, di coinvolgersi attivamente nello svolgimento del Laboratorio stesso.

Tuttavia c’è un’altra funzione, altrettanto importante, che svolgono i Laboratori tematici o i workshop ed è quella di contribuire a definire con maggiore precisione e dettaglio l’immagine del Bambino al centro dell’Incontro. Come le lenti che scompongono il fascio della luce bianca ed evidenziano alcuni dei colori che lo compongono, allo stesso modo ciascun Laboratorio (o workshop) filtra la tematica complessiva dell’Incontro, isola e mette in evidenza alcuni aspetti particolari e, soprattutto, fa depositare quei tratti che sono dotati di una maggiore evidenza empirica.

Quando abbiamo iniziato pensare a questo Incontro, ci hanno mosso alcune domande che abbiamo cercato di rivolgere verso il cuore stesso della funzione educativa, nei nuovi contesti della complessità educativa che caratterizzano il tempo che stiamo vivendo: in che modo riusciamo a “sedurre” le generazioni più giovani al nostro progetto educativo? come colmare il vuoto di simboli, immagini, passioni che avvertiamo nel rapporto con i nostri ragazzi? come “comunicare”, nel senso di mettere in comune, tra generazioni diverse memorie, passioni, valori? Ed ancora, come definire regole comuni di convivenza, per contrastare il bullismo e promuovere condotte prosociali? Come individuare le nuove carenze educative per attivare processi di responsabilità condivisa tra scuola e genitori?

Sono domande che si ricompongono secondo dosaggi di volta in volte diversi nei quattro contesti di esperienze al centro dei Laboratori che si sono svolti il pomeriggio di ieri:

  • i processi di costruzione di linguaggi e di processi comunicativi condivisi, come possibilità di liberarsi dallo stato di minorità e di sauvagerie;
  • la necessità di mettere in comune memorie e progetti tra generazioni e culture diverse;
  • i contesti scolastici e formativi, attraverso soprattutto i percorsi di ricerca di nuovi ruoli e identità professionali dei docenti;
  • i modelli di consumo e di comportamenti culturali di fronte alle tecnologie mediali nell’era della digitalizzazione.

Si tratta oltretutto di ambiti di esperienza che si presentano, nel medesimo tempo, sia nella forma di condizioni educative problematiche e sature di difficoltà e criticità ma anche di contesti che contengono essi stessi le risorse e le opportunità per costruire le soluzioni possibili.

La presentazione delle diverse esperienze nel Laboratori e stata molto ricca e altrettanta ricchezza e vivacità ha manifestato la partecipazione e il dibattito che le hanno accompagnate.

Chi svolge questo ruolo di riassumere l’andamento dei gruppi di lavoro ha un compito in qualche modo ingrato, poiché non è in grado di restituire a chi ha partecipato, e soprattutto a chi non ha potuto farlo, la ricchezza ampia dei temi e soprattutto la coloritura emotiva della partecipazione.

Vorrei aiutarmi proponendovi tre assi tematiche (magari possiamo anche immaginare che diano origine ad uno spazio tridimensionale) attorno alle quali possono collocarsi i contenuti delle presentazioni e del confronto di esperienze avvenuto nei Laboratori, ma anche le suggestioni che ci sono state proposte in tutto l’arco di questo Incontro.

 

Il 1° asse vorrei indicarlo attorno alla coppia tematica Comunicazione / narrazione

Il Bambino selvaggio ci ha sollecitato a riflettere anche sulla comunicazione, come grande contenitore nel quale si realizzano i processi educativi, luogo di opportunità inesplorate e di rischi educativi sempre in agguato, occasione per fare emergere forme inedite di inconsapevolezza comunicativa, occultata spesso da illusorie abilità tecnologiche.

Prendendo avvio dai lavori del primo Laboratorio , è sorprendete notare che il riferimento ad una vicenda avvenuta due secoli fa (quella di Victor, il ragazzo selvaggio dell’Aveyron) ci consenta di riprendere alcune delle domande sulle criticità educative che avvertiamo oggi.

In particolare la questione del linguaggio.

Come è possibile entrare in contatto con un ragazzo cresciuto fuori dalla comunità umana? Con che linguaggio stabilire un rapporto con lui?

In che misura la nostra umanità dipende dal linguaggio e in che misura lo sviluppo del linguaggio dipende dal rapporto con gli altri essere umani?

Cosa accade se non apprendiamo una lingua, se cioè non riusciamo a costruire una trama comunicativa comune che ci permette di attribuire valore ai medesimi tratti della realtà e accordarci su rappresentazioni condivise?

Ed ancora, come superare i limiti del “linguaggio d’azione”, per accedere a codici linguistici dotati di maggiore capacità di astrazione e di generalizzazione?

E proprio seguendo questa percorso di interesse, il Laboratorio ha stabilito un ponte con l’oggi, attraverso una ricerca che il Centro di studi e ricerche sulla comunicazione ha condotto sulla comunicazione non verbale giovanile e sulle differenze con la comunicazione non verbale degli adulti.

Si è trattato di un’indagine innovativa, poiché la ricerca sulla comunicazione giovanile si è rivolta precisamente verso la cosiddetta comunicazione non verbale (i movimenti del corpo, l’occupazione dello spazio, il vestiario, la gestualità e così via).

Ciò che scaturisce per noi di interessante sono quelle differenze di “registro” (nel senso di modi di comunicare e di esprimersi) che emergono tra le forme di comunicazione giovanile (prossemica, vestiario) e le capacità di comprensione degli adulti (genitori e docenti): quello che ha valore espressivo rispetto al gruppo (anche nel senso di differenziarsi dagli altri e condividere con il gruppo di appartenenza, oppure di ricerca di autenticità) spesso viene “letto” e interpretato sul piano della buona educazione o della correttezza dei comportamenti.

Certamente anche in passato le differenze generazionali hanno alimentato i miti giovanili della costruzione della propria identità attraverso il conflitto con le generazioni precedenti; tuttavia, quello che oggi appare creare una “distanza abissale” tra le generazioni è il forte intervento della dimensione tecnologica

È proprio la considerazione dell’impatto che induce sui processi educativi l’intervento della dimensione tecnologica che ci richiama il lavoro svolto nel quarto laboratorio (NET generation), creando una sorta di effetto musicale di contrappunto rispetto ai temi del primo Laboratorio.

Le esperienze e le ricerche presentate ci introducono direttamente all’interno di uno dei principali luoghi problematici dove emergono le attuali criticità nel rapporto con le generazioni più giovani.

L’abilità che bambini e ragazzi dimostrano nell’uso delle tecnologie inserisce una divaricazione tra le generazioni, contribuisce a ribaltare la situazione sul piano educativo.

Come operare sui gap, sulle distanze, che si creano tra le generazioni? Distanze sul piano espressivo (i linguaggi e i lessici utilizzati dalle diverse generazioni); su quello della fruizione (nel senso del diverso approccio con il mezzo comunicativo); infine su quello interpretativo / valoriale.

Ritorna perciò l’attenzione alla necessità che gli adulti (in particolare quelli chiamati più direttamente a svolgere funzioni educative) accrescano la conoscenza sugli interessi e sui comportamenti comunicativi dei ragazzi :

  • perché riducano la paura che deriva dal fatto di non sapere
  • perché colgano l’opportunità di conoscere meglio i giovani
  • perché comprendano come e che scopo vengono utilizzati certi linguaggi
  • infine, perché capire meglio consente di entrare in comunicazione.

Nell’ambito del terzo laboratorio (ricerca di valori e di senso per genitori e insegnanti) l’asse tematico comunicazione / narrazione ci conduce direttamente alla questione della costruzione di un linguaggio comune tra genitori e docenti; all’esigenza di superare paure e diffidenze reciproche per creare condizioni di riflessione comune, di cooperazione, di costruzione condivisa di obiettivi educativi.

Infine, nel secondo laboratorio (raccontare l’intercultura) la riflessione sulla comunicazione si declina come messa in comune di memorie, passioni, progetti non solo tra generazioni ma anche tra provenienze culturali differenti.

Già altre volte abbiamo affrontato a Castiglioncello le questioni dell’immigrazione; sia quando volevamo capire i primi fenomeni legati all’arrivo nel nostro paese di lavoratori provenienti da contesti geografici e culturali non extraeuropei; sia infine quando la presenza sempre più stabile di bambini e ragazzi stranieri nelle nostre scuole ci ha portato a riflettere su come raccogliere e valorizzare le opportunità che provengono dalla presenza di culture diverse.

Quando abbiamo iniziato a occuparci dei bambini immigrati, c’erano nelle scuole italiane meno di 50.000 alunni stranieri, oggi questo numero si è moltiplicato per 10; nel 1997 i ragazzi stranieri nelle scuole superiori erano poco meno di 9.000, oggi sono diventati oltre 100.000.

Oggi è il momento del passaggio dall’eccezionale al quotidiano - dalla cura della semplice accoglienza alla tensione verso una cittadinanza piena e stabile. Della consapevolezza che anche nei gruppi dell’immigrazione si presentano questioni di rapporto tra generazionali, che assumono forme e dinamiche del tutto particolari e che è anche con questi nuovi fenomeni di rapporto con le proprie origini che dobbiamo fare i conti.

Tuttavia, tra le altre suggestioni che ci sono state fornite in questo Laboratorio, la comunicazione tra generazioni si è configurata come passaggio da una comunicazione di descrizioni e di esperienze del mondo nel ‘qui e ora’ ad una comunicazione che si apre al tempo: al filo del tempo che porta a ricostruire una storia, al racconto delle origini e degli eventi che hanno condotto qui, in questo momento e in questo paese; ma è anche apertura al tempo delle possibilità, dei significati che ci indirizzano nella costruzione delle possibilità di scelta del futuro.

L’organizzazione narrativa delle nostre esperienze ci aiuta a darci un’identità, spiegandoci chi siamo stati e chi siamo e ci fa cogliere che questa storia non ha senso se non è intessuta dalle storie degli altri, se non fa entrare l’altro con le sue aspettative e le sue domande di senso.

 

Il 2° asse vorrei indicarlo attorno al tema dell’ Identità

Il tema dell’identità è emerso con evidenza particolare proprio nel secondo laboratorio, attorno alla questione delle cosiddette “seconde generazioni”, vale a dire i ragazzi nati in Italia o arrivati da piccoli con i propri genitori.

In questo senso, le seconde generazioni esemplificano quel campo di tensioni che ritroviamo anche all’interno della tematica generale di questo Incontro: il fatto cioè di essere attraversati da una duplice linea tensione: quella nei confronti della generazione dei coetanei di diversa provenienza culturale e quella nei confronti della generazione del proprio padre e della propria madre, come pure con le proprie origini culturali.

Non è casuale allora che talvolta possa emergere la percezione di essere dispersi tra due (o più) mondi, con il rischio di essere incastrati o di non riuscire a collocarsi in nessun luogo; mentre altre volte tutto questo può sollecitare sentimenti di libertà e ricchezza culturale:

“il 18 novembre a Roma si sono incontrate le seconde generazioni d’Italia. .... Un ragazzo cinese con un cerchietto in testa e le All Star ai piedi. Una ragazza etiope con jeans a zampa di elefante: Un sudamericano vestito da b-boy, con tanto di cappellino e jeans a cavallo a terra. Ragazze con il velo, una felpa e i jeans. Erano tutti stranieri e italiani insieme, in un modo caotico e colorato, ma soprattutto armonioso, che non potevi far altro che sederti e guardarli tutti, catturando delle istantanee nella tua mente e tentando di renderle indelebili” (Randa Ghazi)

La ricostruzione delle vicende di Victor, nel primo Laboratorio, e del suo percorso verso la costruzione di una nuova identità di ragazzo non più “selvaggio” si presenta anche come tentativo di costruire la propria libertà, di riscattare la propria intelligenza attraverso l’uso dei segni dell’alfabeto.

Nel terzo laboratorio, l’approfondimento della riflessione sull’identità del nuovo docente si definisce sulla base del riconoscimento dell’identità dei bambini e dei ragazzi e dei nuovi bisogni che esprimono in ordine ai progetti educativi e formativi.

Diventa perciò rilevante interrogarsi su come arricchire e diversificare il profilo docente; come articolare il ruolo e le carriere: oggi infatti non viene richiesto ai docenti semplicemente di conoscere la propria materia e saperla esporre, ma si chiede di gestire relazioni e conoscenze in classi sempre più multi-culturali, padroneggiare le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, valorizzare il senso delle regole comuni e delle eguali opportunità alla conoscenza e alla formazione continue.

Questo si traduce certamente nell’individuazione di specifiche Aree di competenze (disciplinari, pedagogiche, organizzative, ecc.) che devono costituire le linee guida di un nuovo profilo professionale, ma tutto questo porta con sé anche l’affermazione di una dimensione dialogica di attenzione all’altro (ai genitori, alla collettività) e di apertura alle novità dell’esperienza e della sperimentazione.

In questo senso, il tema del processo di costruzione della propria identità ci richiama la questione dell’orientamento, nel senso di una cultura costante dell’orientamento, che per i ragazzi vuol dire certamente acquisire un proprio metodo di studio e la padronanza di strategie personali di apprendimento, ma anche conquistare la consapevolezza del percorso via via compiuto, (anche attraverso maggiori capacità di autovalutazione da parte degli allievi, delle scuole e del sistema) con i successi e le criticità, e delle attitudini e delle potenzialità maturate.

Tutto questo non può che riproporre la centralità della scuola pubblica, della scuola di tutti; una scuola che proprio dalla valorizzazione dell’autonomia organizzativa, didattica e di ricerca può trovare risorse e opportunità per realizzare il compito costituzionale di contribuire a superare gli ostacoli che impediscono l’affermazione delle attitudini e delle potenzialità di ciascuno.

La riflessione condotta nel quarto laboratorio ci pone la domanda di chi sono questi nuovi navigatori multimediali. E’ importante allora ricostruire i loro comportamenti di consumo culturale; l’incidenza che assumono, accanto alla tv, i media nuovi (cellulari e computer) e quelli tradizionali (libri, giornali, teatro, ecc.).

Questo non solo per raccogliere tutte le opportunità di dialogo e di comprensione degli interessi e dei valori, ma anche per attenuare quei rischi che per i ragazzi possono derivare dall’eccesso di individualismo, vale a dire dall’assenza di confronto e di scambio con punti di vista diversi, come nel caso degli adulti significativi.

Di fronte a queste nuove identità di migratori multimediali (continuo passaggio dei ragazzi tra media diversi, tra esperienze virtuali e reali) genitori e scuola sono costretti ad abbandonare l’illusione di restaurare un modello di dominio fondato sulla padronanza delle conoscenze e delle capacità (il docente ne sa di più degli studenti e il genitore sa fare più cose dei figli). Al contrario, per loro la sfida è quella di governare i processi di transito tra i diversi ambiti di esperienza mediale: facilitare le opportunità di scambio e di arricchimento delle esperienze maturate; mostrare concretamente e con coerenza ai ragazzi in che modo collocare questo flusso di esperienze in una gerarchia di valori e in un ordine di priorità.

 

Infine, Il 3° asse vorrei indicarlo attorno alla coppia tematica Emozioni / passioni

Nel primo laboratorio la presentazione della ricerca sui comportamenti non verbali dei ragazzi di Siena e di Cecina ha posto in evidenza la presenza di una forte dimensione emotiva nei comportamenti di comunicazione non verbale delle nuove generazioni. Gesti e comportamenti che comunicano il fortissimo bisogno di condivisione delle emozioni; di manifestare gli stati d’animo e i sentimenti che sottendono ai loro racconti, cercando attraverso una grande quantità di gesti iconici per coinvolgere nel proprio mondo emozionale i destinatari della narrazione.

Anche nel secondo laboratorio si ripropone l’importanza di valorizzare i linguaggi di tipo emotivo / relazionale nella comunicazione tra culture e tra generazioni.

Il progetto di apprendimento dell’italiano e di educazione interculturale attraverso il gioco del calcio mette in mostra il valore dell’equilibrio tra la diversità dei singoli e l’unità del gruppo: sia nel gioco del calcio sia nei contesti di apprendimento multiculturali, dove è decisiva la capacità di utilizzare le differenze come risorse per l’apprendimento efficace.

Questo progetto mette in evidenza anche l’importanza di organizzare emozioni e passioni attorno ad un obiettivo comune ed adottare metodologie di gioco e cooperazione per valorizzare le qualità dei singoli, all’interno di esperienze coinvolgenti e complesse.

Anche la NET generation, protagonista del quarto laboratorio, si trova al centro di un reticolo di emozioni, suscitate soprattutto dalla paura e dai timori di molti di noi di perdere la possibilità di condividere desideri e passioni dei nostri figli e dei nostri allievi, di sostenerli nella costruzione della loro autonomia.

Tuttavia, per un altro verso, il fattore che contribuisce a mantenere alta l’emotività e la passionalità attorno al rapporto dei minori nei contesti multimediali credo sia la consapevolezza che proprio su questo terreno può giocarsi il futuro della democrazia nei nostri Paesi.

Emerge la paura che si ripropongano le divaricazioni tra chi ha le possibilità di accedere alla ricchezza delle opportunità tecnologiche e delle fonti di informazione e conoscenza e chi al contrario vede limitato il suo potere di accesso.

Divaricazioni tra chi è in grado di sviluppare consumi culturali ricchi e articolati e chi al contrario non possiede strumenti culturali adeguati per superare livelli d’uso delle tecnologie poveri di consapevolezza comunicativa ed espressiva.

In questo senso i progetti che puntano a introdurre nei contesti educativi - in particolare nelle scuole - percorsi formativi all’uso dei media e con i media (la cosiddetta media education) costituiscono occasioni per unire l’impegno educativo e le risorse di genitori, scuola, centri di ricerca, istituzioni.

Una metodologia di lavoro come quella dei Piani di Intervento formativo integrato rappresenta una possibile risposta all’esigenza di sviluppare sui territori forme di comunicazione e di mediazione culturale finalizzate alla ricerca, alla formazione, alla sperimentazione delle esperienze e delle iniziative intraprese.

Infine, per quanto riguarda il terzo laboratorio, è stato ricordato più volte che l’impegno formativo ed educativo pone il docente al crocevia di una rete di emozioni che lo coinvolgono profondamente e che chiamano in causa la sua capacità gestirle per volgerle a favore dei processi evolutivi dei ragazzi.

In questi termini, la professionalità del docente si configura anche come capacità di lavorare sulle emozioni e trasformarle in passioni in grado di muovere progetti; nel possesso di saperi e competenze che hanno a che fare con la cura della persona nei suoi aspetti più ampi e in questo senso stabiliscono una forte continuità tra la dimensione didattica e quella educativa.

Scriveva Gianni Rodari che “i ragazzi hanno bisogno di quelle che una volta si chiamavano ‘le cose più grandi di loro’. .... Hanno bisogno di misurare la loro energia su scala più vasta che non siano la scuola e la famiglia. Hanno bisogno di concepire ideali e di imparare ad amarli sopra ogni altra cosa. .... Dai figli, una volta cresciuti, possiamo ricevere due sorte di rimproveri. Potranno rimproverarci di non averli aiutati a ‘far fortuna’, e sarebbe triste per loro e per noi, perché significherebbe che abbiamo educato dei cinici egoisti.Ma sarebbe molto più grave se ci potessero rimproverare di aver dato alla loro vita un orizzonte moralmente meschino”

In conclusione, ho proposto di collocare i contenuti e le suggestioni che hanno popolato i quattro Laboratori tematici attorno a tre assi concettuali:

  • la comunicazione / la narrazione
  • l’identità
  • le emozioni / passioni

Si tratta di tre dimensioni concettuali che ci aiutano a riassumere i temi dei Laboratori, ma che possono anche aiutarci a definire il volto del Bambino selvaggio; vale a dire quella condizione di distanza nei valori, di vuoto comunicativo, di debole condivisione di memorie e di desideri che sembra segnare in molti casi il nostro rapporto con le generazioni più giovani.

Il confronto con la storia di Victor e degli altri “ragazzi selvaggi” ci ha aiutato a cogliere somiglianze ed elementi di continuità, ma al tempo stesso ci porta a segnare le differenze incolmabili; il fatto cioè che ci appaiono rimescolate le asimmetrie di poteri e di conoscenze che definiscono la direzionalità educativa tra le generazioni.

La percezione che i nostri ragazzi posseggono risorse e opportunità di conoscenza e di formazione non solo maggiori di quelle che avevamo noi, ma più ricche e complesse anche di quelle che possediamo da adulti porta chiederci se ha ancora senso pensare all’impegno educativo come l’abbiamo pensato finora , come è stato pensato ad esempio da Itard nei confronti di Victor.

Ha senso cioè pensare ad un percorso educativo come ad un e-ducere, far uscire cioè da una condizione di minorità e talvolta di sauvagerie, per portare a sé, nel luogo nel quale ora siamo collocati. Oppure l’assunzione del nostro compito educativo non debba oggi presentarsi piuttosto nel segno di un “rendez vous”, vale a dire dell’incontro in un terzo luogo, diverso per entrambi, dove anche noi siamo chiamati a dirigerci, in un percorso auto-educativo che ci coinvolge profondamente.

È probabile allora che a quel punto ricominceremo anche a percepire nuovamente quei richiami e quelle domande di sostegno, di fiducia, di complicità, di vicinanza emotiva che ci provengono dai nostri ragazzi. In realtà, forse, non sono mai cessati e, solo dopo che abbiamo ripreso il coraggio di rimetterci in gioco, riprendono a farsi sentire da noi.

Ci piace pensare allora che Castiglioncello, con la storia di questi diciassette Bambini, sia il luogo dove abbiamo cercato di mantenere aperto il nostro “orecchio verde”.

Penso al signore dall’orecchio verde, il personaggio di Rodari che aveva conservato un orecchio acerbo con il quale poteva ascoltare i suoni e le voci che gli adulti non percepiscono più; quel personaggio che Marisa Musu, nel 1984, alla conclusione del primo Bambino, ci aveva indicato quasi come guida, una sorta di assistente virtuale, per gli anni che sarebbero venuti.