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INCONTRI
INTERNAZIONALI
DI CASTIGLIONCELLO

diciassettesima edizione

il bambino selvaggio

alle relazionirelazioni e documenti



Raffaele Mantegazza
Università di Milano Bicocca

NOSTALGIA DI VICTOR

L’INFANZIA TRA ASSEDIO EDUCATIVO E SOLITUDINE TECNOLOGICA

I bambini sono come i selvaggi; ignorano le norme, ignorano l’educazione, si pongono ai limiti della civiltà; quasi come certe bestie che erano disegnate nelle mappe medievali ai confini del mondo conosciuto, bambini e selvaggi esibiscono una intollerabile alterità. Essere bambini significa allora porsi su un pericoloso crinale “al di qua del bene e del male”. Il selvaggio, però, come il bambino, può essere considerato portatore di colpa o depositario di una mitica innocenza; assai diverse saranno allora le metafore che nasceranno da queste due posizioni apparentemente antitetiche, e soprattutto le differenti idee di educazione che tali metafore sosterranno.

Se crinale tra bene e male viene inteso come sede di una colpa originaria, se il compito dell’educatore/trice è in ultima analisi quello di punire il bambino o il selvaggio (con l’alibi dell’educarli) per la loro appartenenza a una terra vergine, allora l’infanzia viene raffigurata come “albero da raddrizzare”, l’educazione come attività ortopedica. L’educatore deve porre un bastone di fianco al fusto dell’albero, e legarvelo, non perché l’albero potrebbe forse crescere storto, ma perché sicuramente crescerà storto senza un intervento violento e prevaricatore. Il peccato non è considerato come una possibilità tra le altre ma come l’essenza del comportamento infantile; poco importa se ciò significa concepire l’infanzia come regno della colpa o come territorio franco nei confronti delle categorie di bene e di male: è comunque connaturato all’immagine di infanzia il fatto che i bambini e le bambine, come i selvaggi, sfuggano alla Norma adulta, anzi mettano in scena comportamenti totalmente “altri” rispetto alla Norma medesima; è il fatto stesso di essere bambini e bambine a portare inevitabilmente alla messa in crisi e in discussione delle regole che permettevano la costituzione di una identità adulta. Disobbedire costituisce il modo di essere specifico dell’infanzia; la disobbedienza è iscritta nei corpi dei bambini e delle bambine.

Ma come sempre accade per l’idea di colpa, questa associazione dell’infanzia con i comportamenti che si pongono al di là o al di qua della Norma si caratterizza anche per lo straordinario potere di fascinazione esercitato sugli adulti; il bambino e la bambina costituiscono anche il paradigma di una illusoria liberazione dalla Norma; disobbedire è un modo di essere dell’infanzia che non può che affascinare l’adulto costretto (spesso da se stesso) all’obbedienza. Chi ha interiorizzato, attraverso un lungo e penoso tirocinio, le esigenze della Norma sociale, vede nel bambino e nella bambina l’incarnazione e la proiezione di quegli impulsi che ha imparato a reprimere o alla meglio a sublimare; nasce qui il mito del fanciullo come sovvertitore dell’ordine borghese repressivo, si costituisce in questa piega dell’immaginario occidentale l’idea di una infanzia disobbediente e dunque portatrice di libertà; la libertà di mettersi le dita nel naso, di ignorare le convenzioni, di sfidare l’adulto sul piano del comportamento e della regola.

Certo, considerare l’infanzia come essenzialmente ribelle significa porsi sullo stesso piano di chi la considera essenzialmente colpevole; ma quello sulla colpa e sulla Norma è un discorso adulto, del quale il bambino e la bambina nulla sanno; dunque sfugge la dimensione di costituzione di identità propria della disobbedienza infantile, uno tra i tanti comportamenti attraverso i quali il bambino e la bambina si confrontano con il mondo adulto nei confronti del quale non possono ancora, non conoscendolo, assumere alcuna posizione. In secondo luogo la libertà che la ribellione dovrebbe apportare all’adulto dovrebbe consistere non nell’ignorare le convenzioni ma nel violarle sistematicamente e consapevolmente; nella disobbedienza infantile manca quella totale e completa consapevolezza della norma violata e dei suoi principi di legittimazione che fa invece del ribelle adulto un vero rivoluzionario, che perciò stesso, nel moto di rivolta, istituisce una nuova norma con nuovi principi di legittimazione. Posizione solo apparentemente contraria alla colpevolizzazione dell’infanzia, la mitizzazione del bambino e della bambina come sovvertitori della morale imperante scambia il bambino ribelle alla necessaria ricerca di definizione della propria identità con un improbabile e miniaturizzato vessillifero della Rivoluzione.

Speculare e in un certo senso complementare all’idea dell’infanzia come colpa abbiamo l’immagine del bambino come essere perfetto e innocente, e dunque l’idea dell’infanzia come regno della perfezione. Se il bambino e la bambina come i selvaggi non conoscono peccato, allora essi sono per definizione “al di qua del bene e del male”  e vivono in una situazione di beatitudine edenica e di incoscienza che è da invidiare per chi, dopo la Caduta, ha scoperto che è necessario imparare a sopravvivere con il sudore della fronte. Invidiamo allora i bambini e le bambine per il loro essere sospesi in un tempo e uno spazio che non conoscono la Norma e la Prescrizione, e da un certo punto di vista per il loro galleggiare in una dimensione del tempo che sembra ignorare l’erosione cui giorni e gli anni sottopongono le coscienze adulte. L’infanzia allora si presenta come un’immagine di beatitudine e di serenità, non turbata da problematiche morali né dal passare degli anni, come una sfera perfetta all’interno della quale tutto assume tinte sfumate e da ricordare con nostalgia.

Se è vero allora che “tutto è ottimo quando esce dalle mani del Creatore, tutto si corrompe nelle mani degli uomini”, l’idea di una infanzia senza peccato ci permette di sognare almeno per un momento -nel contatto quotidiano con i bambini e le bambine- un ordine sociale “altro” rispetto a quello nel quale viviamo; alla radice della scelta di una professione educativa c’è, per molti soggetti -spesso quelli pedagogicamente più sensibili- anche questa dimensione inconscia. L’infanzia è allora il regno del senza peccato; ma anche quando pecca l’infanzia è libera e spontanea; ed è proprio la categoria di spontaneità a fare da supporto culturale e pedagogico a questa immagine dell’infanzia; il bambino e la bambina sarebbero dunque spontanei, liberi dai condizionamenti tipici del mondo adulto; il loro comportamento non sarebbe riducibile alle categorie adulte di giusto/sbagliato, bene/male. E’ l’educazione dunque  a venire negata da questa immagine di infanzia; che però non ci dice che cosa ne sia di tale perfezione anche senza intervento educativo. Il bambino e la bambina diventano comunque adulti, oppure restano bambino e bambina, e dunque perfetti ma irrimediabilmente dipendenti da ciò che è altro-da-loro? Rifiutarsi di educare un bambino o una bambina significa lasciarli per sempre nella loro perfezione? Oppure permettere che altri condizionamenti li rendano inevitabilmente adulti?

La inestricabile connessione tra perfezione e dipendenza costituisce il carattere culturalmente “perverso” dell’immagine di infanzia che stiamo analizzando; la perfezione del mondo infantile viene così a sovrapporsi alla supposta perfezione del mondo animale, vegetale o minerale. Il bambino e la bambina sono al di qua del bene e del male come le bestie, i fiori e i cristalli: come questi mobilitano la nostra tenerezza, la nostra cura e a volte la nostra invidia per il loro essere completamente sprofondati in se stessi; ma come questi sono caratterizzati da una dipendenza assoluta che per un adulto è probabilmente l’opposto della libertà. In questo senso il processo di crescita è inteso come morte, come fine di un mondo, sterminio di una innocenza primigenia; il che associa ulteriormente nell’immaginario i bambini ai selvaggi, sterminati fisicamente o spiritualmente in nome della “crescita” culturale rappresentata dall’Occidente

L’immagine dell’infanzia come regno della perfezione può ulteriormente essere declinata con l’associazione della felicità infantile all’idea di paradiso perduto e dunque il rivolgersi all’immagine dell’infanzia attraverso l’atteggiamento della nostalgia[1]; qui la materialità dell’infanzia sofferente, frustrata, violata viene letteralmente ignorata e rimossa in funzione di una immagine estetizzante che ricorda l’essere stati bambini come la più bella esperienza della vita, persa per sempre nel passato; questa immagine è spesso servita per delegittimare le richieste di aiuto che provengono dall’infanzia in carne ed ossa, sovrapponendovi un’idea posticcia di felicità e di beatitudine. Da bambini non siamo probabilmente stati più o meno felici di quanto lo siamo ora; né i bambini attuali lo sono, se non vogliamo scambiare l’incoscienza o l’inconsapevolezza per la felicità. Quello che è certo è che esistono numerosissimi bambini e bambine che attualmente sono infelici, perché affamati, assassinati, violentati, soli: la materialità dell’infelicità infantile (che altro non è se non una faccia -certo la peggiore- dell’attuale infelicità di milioni di membri della specie umana) è un dato che dovrebbe a rigore servire da contrappeso ai miti che ci propongono l’infanzia come regno della felicità! Oppure tale concezione dell’infanzia può sposarsi con l’associazione della beatitudine infantile al concetto di Utopia[2]; in questo caso l’infanzia viene posta non all’inizio ma alla fine del processo educativo, come nell’educazione se si trattasse non di far crescere i bambini ma di rim-bambinire gli adulti; il problema è che l’infanzia ad un certo punto...finisce, e semmai è un tratto caratteristico della nostra epoca il permanere bambini/e degli uomini e delle donne per sfuggire alle responsabilità e ai compiti sociali propri degli adulti; questa immagine dell’infanzia viene allora sfruttata come legittimazione di una sorta di generalizzata “sindrome di Peter Pan”, secondo la quale crescere è male e il meglio è non crescere affatto; occorrerebbe invece insistere sul fatto che è compito dell’educazione portare a una buona morte il bambino o la bambina che siamo stati piuttosto che insistere nel tematizzare la dipendenza totale tipica dell’infanzia come suprema libertà La frase “se non ritornerete come bambini..” ha un senso solo se l’accento cade sul “come”, nella consapevolezza che “bambini” non potremo tornare ad esserlo mai più.

Occorre allora una educazione dell’infanzia che   si sottragga sia all’assedio educativo  che sottopone il bambino e la bambina a una sorta di controllo capillare e quotidiano[3], sia alla solitudine tecnologica che ci sembra il dato più significativo relativamente a una infanzia letteralmente abbandonata davanti agli schermi  e asservita ai loro diktat antipedagogici. Occorre un’educazione dell’infanzia che ne prenda sul serio le caratteristiche di differenza qualitativa nei confronti dell’adulto e lavori su di esse, una infanzia che parta dall’acquisizione che i bambini sono qualitativamente differenti dagli adulti: lo spartiacque della pubertà separa letteralmente due mondi: l’angelo con la spada fiammeggiante blocca l’accesso all’età prepuberale, vieta ogni percorso all’indietro: tranne, per fortuna, quello dell’immaginario: ed è un percorso nell’immaginario adulto a proposito dell’infanzia e del suo carattere altro e selvaggio quello che ci accingiamo a proporre nelle seguenti pagine.

1.   Gli artigli di Hobbes. Infanzie cartonate

L’idea che i fumetti siano cose per bambini fa giustamente arricciare il naso a più di un intenditore; i fumetti sono cose da grandi, e proprio in questo consiste la loro straordinaria forza educativa; proprio il carattere di  de- e ri-contestualizzazione tipico del fumetto costituisce infatti una delle sue più straordinarie  caratteristiche comunicative; come  il  gioco, esso  crea uno spazio di moratoria, all'interno del quale  possono essere sospese le leggi della logica tradizionale, con l'eccezione di quelle che servono per il “plot” narrativo; e comunque esso trasporta il lettore all'interno del cerchio magico di nuovi contesti “protetti” nei quali sperimentare nuove forme comunicative. Come il gioco, inoltre,  il fumetto provvede quello spazio  transazionale all'interno del quale esercitarsi inconsapevolmente  alla vera  lettura ed al vero pensiero (posto che ne esistano di  non-veri!).  Un carattere di palestra mentale che è proprio del  West di Tex Willer come della Topolinia disneyana, ma che si fa  forse più  evidente nelle strisce più “ardite” dal punto di  vista  del gioco  mentale. Immergendosi  nella "nuova realtà" provvista dalla  decontestualizzazione propria del fumetto, i ragazzi e gli adulti  imparano  allora a mettere tra parentesi le strategie conoscitive  consuete (il pensiero convergente, come l'avrebbe definito John  Dewey); occorrerà poi una emersione da quelle logiche, un nuovo ancoramento  al terreno della logica sequenziale, per poter  sperimentare in nuovi contesti (l'arte, la letteratura, il cinema) ciò che si è appreso in questo benefico sprofondare nelle logiche dei balloons, in un'operazione di anarchismo cognitivo e di  pensiero divergente che da sempre è all'origine della grande creazione artistica[4].

Fatte salve queste premesse, ci immergiamo letteralmente nell’analisi di alcune delle figure d’infanzia contenute nei fumetti; faremo lo stesso nei paragrafi seguenti a proposito del cinema, della letteratura per l’infanzia e dei cartoni animati[5].

E’ difficile non iniziare da quello che non è propriamente un fumetto, ma una serie di storie  in rima illustrate[6]; si tratta dello Struwwelpeter, il Pierino Porcospino di Heinrich Hoffmann[7] sul quale ci soffermeremo in modo particolare per la ricchissima serie di figure “esemplari” che esso provvede; questo libro va secondo noi letto “al contrario”, mettendosi dal lato oscuro del testo di Hoffmann, superando lo stupore il rifiuto per i mezzi esplicitamente terroristici utilizzati per i fini pedagogici; mettendosi dall’altra parte del libro, come si fa quando si osserva il rovescio di un ricamo scoprendo linee e disegni insospettati; è allora affascinante almeno quanto terrorizzante l’immagine dello Struwwelpeter che apre la raccolta: a colpire sono ovviamente i capelli e soprattutto le unghie “nere a lutto”[8], che concorrono a costruire una figura per metà umana e per metà ferina, che richiama sia alle figure del mito sia al gusto tutto infantile per lo sporco, per il misto e il fango: un ritorno alla terra, alla sua densità e ai suoi impasti, che difficilmente farà dire a “ogni bambino”, come vuole Hoffmann “Com’è brutto quel Pierino”[9], ma farà invece provare solidarietà e segreta ammirazione per il reprobo; solidarietà che  proviamo noi adulti per la povera Paulinchen che viene arsa viva dagli zolfanelli; ma mentre per noi l’immagine più commovente e straziante è l’ultima, con i due gattini “smarriti e sgomenti”[10] che formano un lago di lacrime ai piedi della povera Paolinetta, per i bambini e le bambine la figura della bambina che arde viva, coi i due gatti “sgomenti e infelici”[11] che gridano aiuto deve possedere un forte fascino; al punto che forse Paolinetta avrà negli anni alimentato quelle schiere di piromani che nelle intenzioni del suo creatore doveva dissuadere dallo “scherzare col fuoco”; tutt’altra storia quella di Konrad che “non appena la mamma è uscita, tosto (...) si succhia le dita”: qui è davvero straordinaria la figura del sarto “con il suo forbicione”[12] che “taglia il ditone” al bambino: figura disegnata con estrema finezza, quasi un Joker o un robot ante-litteram, con quel forbicione che trancia il dito (e non è il caso forse di perderci nell’individuazione di simboli di castrazione anche troppo evidenti) e lo fa con straordinaria eleganza, con il cappello che gli vola dalla testa rossa e il metro che gli esce svolazzando dalla tasca; il Suppen-Kaspar, bambino bulimico che finisce per morire di anoressia, e il Zappel-Philipp, che si dondola a tavola nonostante i divieti paterni mettono in scena quello che probabilmente è il teatro di mille drammi quotidiani per i bambini e le bambine: la tavola. Mentre Gasparino ripete il suo “la minestra: no no no”[13], e tutto sommato appare un po’ monotono, Filippo scopre che a tavola ci si può anche divertire, basta rompere le rigide regole del galateo; e anche se il cattivo gusto di Hoffman adorna l’ultima illustrazione[14] con il fascio di verghe che attendono Filippo dopo il misfatto compiuto, crediamo che il piccolo possa ripetere con il compagno di sventure Per di Carota di Renard: “Purché ci si diverta!”. Infine, le figure più metafisiche e per noi più straordinarie, sulle quali si chiude il libro: Hanns Guch-in-die-Lust e Fliegenden Robert; accomunati dalla passione per il cielo, i due fanciulli condividono anche una sorte che a noi pare benigna: Gianni guarda-in-aria cade in un fosso, è vero (ma anche accadde anche al Filosofo greco, per quel che ci consta!); ma i versi finali recitano “E sopra l’acqua, tal qual navicella/viaggia, galleggia, se ‘n va la cartella”[15]; e questa sarebbe una punizione? Roberto che vola, poi, raggiunge con poetico slancio quel cielo che Giannino si limita a guardare; se ne va come il Cosimo del Barone rampante calviniano, i terricoli schiavi della forza di gravità salutando da un’immagine precauzionalmente racchiusa in una cornice, librandosi sulla levità e leggerezza dell’infanzia: “L’han cercato in campo aperto/ogni giorno dopo giorno/l’han cercato ma Roberto/non ha fatto più ritorno”[16]

Passiamo a un’altra lettura edificante, che stavolta ha per protagonisti una coppia terribile (la prima di molte che seguiranno): si tratta di Max e Moritz che fece la sua comparsa nel 1865 partorito dalla fantasìa di Wilhelm Busch[17]; i due monelli si sbizzarriscono qui in sette “birbonate” , tutte caratterizzate da un’acuta fantasia e da quello che potremmo definire un utilizzo alternativo e un poco anarchico degli spazi e degli oggetti della quotidiana vita contadina; l’ultima birbonata è però mortale: nella migliore tradizione del sadismo pedagogico i due bambini vengono triturati nel mulino, e i minuzzoli che rimangono disegnano a terra le loro due sagome finché le gallinelle (spesso oggetto dei loro truculenti scherzi) vengono a divorarli. Max e Moritz sono puniti con la morte, come parecchi dei protagonisti del libro di Hoffmann; altre coppie celebri se la caveranno un po’ meglio, come i mitici Bibì e Bibò che nella loro relazione pericolosa con Capitan Cocoricò rimedieranno qualche punizione e qualche sculacciata, ma erediteranno dai loro cuginetti tedeschi Max e Moritz la fantasìa per l’invenzione delle marachelle.

Fantasia che rimane la protagonista dello straordinario fumetto che ha per protagonista Little Nemo; il simpatico ragazzino regalatoci dall’intelligenza di Winsor Mc Cay sogna ogni notte, e proprio attorno ai suoi sogni, colorati, luminosi e surreali, si snodano le narrazioni che fanno da pretesto per le splendide tavole a fumetti; Nemo si risveglia ovviamente alla fine di ogni sogno, quasi sempre caduto dal letto e con una voce (spesso fuori campo) di adulto che lo invita ad alzarsi perché è già mattina, o a tornare a dormire e gli rimprovera le cene pantagrueliche della sera prima; ma la vignetta che raffigura Nemo sveglio è molto piccola rispetto alla tavola ed è relegata in basso a destra; sono i sogni che contano durante l’infanzia, anzi l’infanzia è proprio la terra del sogno e del fantastico; sognano anche gli adulti, come dimostrato nelle splendide tavole che Mc Cay dedica ai Sogni di un divoratore di crostini; ma le storie di Nemo sono legate a un regno fantastico ed alla conquista amorosa di una altrettanto fantastica principessa. I sogni di Nemo sono grotteschi, eccessivi, splendidamente colorati e questo rende lo sguardo di Mc Cay sull’infanzia degno dell’oggetto su cui tale sguardo si appunta; basta il primo sguardo alle tavole di Little Nemo per rendersene conto[18].

            Nelle  storie a fumetti di Charles Schulz, il geniale  creatore  dei Peanuts, così note in Italia che un loro personaggio ha dato il nome a una delle più interessanti riviste a fumetti del nostro paese, Linus, gli  adulti non compaiono; nella riduzione  a cartone animato la loro presenza (per rimproverare o correggere i bambini e le bambine) è annunciata da suoni fuori campo di trombone stonato! La società infantile immaginata da Schulz è una società  già adulta, , forse troppo adulta o addirittura esclusivamente adulta. Non si tratta di infanzia nei Peanuts, ma vi si rappresentano le paure, le idiosincrasie, le miserie e le bassezze del mondo adulto; le nevrosi di Charlie Brown, gli amori impossibili di Piperita Patty, il servilismo appiccicaticcio di Marcia, i mille complessi e a l contempo la profonda saggezza di Linus e forse anche la furbizia ipocrita di Snoopy sono dei tratti caratteriali di adulti-bambini, specchi di una società adulta che riscopre con fastidio e senza tanta ironia i propri tratti di infantilismo. Forse allora l’unico vero bambino delle bellissime strisce di Schulz è Pig Pen: sporco per la voglia di esserlo, bello proprio perché incrostato di fango e polvere, il Pierino Porcospino della società linusiana rivela la sua bruttezza quando, in un episodio della saga, viene lavato e diventa un damerino come tanti[19], perdendo l’unicità della sua infanzia. L’affinità elettiva dei bambini e delle bambine con lo sporco, il fango, quel regno del misto e del mistero che risiede nelle pozzanghere e nei polverosi sottoscala viene messa in luce da questo personaggio, che non viene del tutto accettato dai suoi amici e amiche; la società di Schulz è un mondo di adulti sconfitti: Charlie Brown vincerà mai una partita di baseball, Lucy non conquisterà mai Schroeder che dal canto suo mai si libererà della sua monomania beethoveniana, ma di una cosa possiamo essere certi: che dopo ogni lavaggio Pig Pen tornerà a inzupparsi di acqua piovana e di mota, facendo valere i diritti infangati della sua infanzia contro un mondo adulto che è sporco in ben altro e più profondo modo.

Questi tratti avvicinano il mondo di Schulz all’universo di Mafalda, Manolo e compagni/e creato  dal grande disegnatore Quino; anche qui i bambini sembrano adulti, ma non tanto perché nevrotici quanto perché bombardati dai problemi degli adulti; Mafalda e compagni/e parlano della disoccupazione, della violenza urbana, dei problemi della classe operaia: problemi e questioni adulte, che gli adulti frivoli e stupidi del mondo di Quino non solo non sanno risolvere ma nemmeno hanno voglia di affrontare; alla infantilizzazione del mondo adulto Quino affianca come ovvia conseguenza la precoce iniziazione dei bambini ai problemi della vita adulta, quasi invitando noi adulti a fare il nostro dovere perché Mafalda si preoccupi non del problema dello sterminio dei bimbi del Sud del Mondo ma del braccino di plastica rotto della sua bambola che non si vuole riattaccare.

Indubbiamente insopportabili devono risultare a parecchi lettori dei fumetti disneyani Qui, Quo, Qua, i paperi senza padre e madre che popolano il mondo di zii paperopolese; meno antipatici sono Tip e Tap (peraltro personaggi minori, come minore è il personaggio di Edy, unica bambina del mondo topoliniano o paperopolese), perché forse un po’ più bambini (d’altro canto con uno zio saccente e capace di far tutto come Topolino, c’è poco da fare i saggi!); i tre fratellini con i berretti del Milan, dell’Inter e del Chieti, invece, sono davvero noiosi: hanno il Manuale delle giovani Marmotte che consultano come una Bibbia e che ha una risposta per tutto; sanno sempre cosa fare e come farlo; risolvono con grande acume tutti i problemi che assillano Paperino e Paperone; ma che noia questi ragazzini! Mai una volta che facciano i bambini: quasi quasi meritano le sculacciate e le corvees di cucina alle quali Paperino (il frustrato che sfoga la sua ira sui figli...pardon, nipoti) li sottopone periodicamente. 

Uno dei bambini più noti del fumetto statunitense del dopoguerra è Calvino, protagonista della coppia Calvin e Hobbes. Nel bellissimo fumetto di Bill Watterson, Hobbes è una tigre di  pezza, forse imbottita di vecchi giornali, ma nessuno  se  ne accorge  scorrendo le tavole colorate del  cartoonist  americano; Hobbes sembra vivo al bambino Calvin, ed è indiscutibilmente vivo anche per i lettori, che con il ragazzino solidarizzano. Certo, anche Calvin ha il vizio di fare troppo l’adulto, con le sue battute fulminanti piene di paroloni prese a prestito dalle News del mattino: ma quando scambia una bottiglietta di Coke trovata nel giardino per il teschio di un animale preistorico che battezza Calvinosauro; quando compete con i mostri sotto il letto che attendono che lui vada in bagno per poterlo sbranare; quando la maestra, la signora Vermoni, lo sgrida e lui si tramuta nell’astronauta Spiff che fronteggia le torture di un mostruoso alieno; in questi momenti di riconversione del reale, di trasmutazione degli oggetti e degli spazi che finalmente sono sottoposti unicamente alla infantile grammatica della fantasia, Calvin è indubitabilmente bambino; l’infanzia ritrova con questo personaggio il suo potere di creare mondi, di aprire nuove strade, di sovradeterminare gli oggetti: potere che nella poesia, nel sogno o nel giuoco possiamo assaporare anche da adulti: solo che per noi viene meno quella fede cieca nella fantasia caratteristica del bambino e della bambina, e che permette di credere al di qua di ogni dubbio che le statine del presepe si notte si animano e intrattengono segreti rapporti; a questo punto, che importanza, anzi letteralmente senso ha domandarsi se Hobbes sia una tigre vera o meno?

Una notazione infine per Life in Hell di Matt Groenig: fumetto a nostro parere non del tutto azzeccato, nel quale il bambino (diverso dall’adulto perché ha un solo grosso orecchio) letteralmente non si distingue dal mondo infantilizzato degli adulti che lo circondano, da suo padre, ai suoi maestri repubblicani e repressivi, ai due turchi Akbar e Jeff, forse omosessuali, certamente infantili nel loro sadico darsi e negarsi amore.

Alla fine di questo nostro breve e incompleto percorso, ci resta una domanda concernente la presenza dell’infanzia nel fumetto: non è che dietro la preferenza dei disegnatori di fumetti per bambini troppo adulti sia nascosta una sorta di difficoltà ad elaborare un’idea specifica di infanzia? Senza nulla togliere all’efficacia dei fumetti che utilizzano personaggi infantili come metafore del mondo adulto, pre-testi di tipo politico o sociale, anzi apprezzandoli fino in fondo, non si potrebbe per una volta fare quello che in parte hanno fatto Mc Cay e Watterson, ovvero pensare a un bambino che in quanto tale sia protagonista di un fumetto, senza mettergli in bocca frasi storiche su Gheddafi o giudizi perentori sul problema del debito estero dei paesi del Sud del mondo?


2. Mamma ho perso l’audience. L’insopportabile bambino del cinema americano.

Come è ben noto ai frequentatori anche solo occasionali delle sale cinematografiche il topos del bambino o (molto meno spesso) della bambina costituisce al contempo uno dei più stucchevoli luoghi comuni delle pellicole che da vent’anni sbarcano da oltreoceano sulla nostra penisola, e uno dei marchio di sicuro successo; basta mettere sul set un bambino lentigginoso e un po’ carogna, meglio se orfano o accompagnato da un cane, gatto, criceto, pidocchio (qualunque bestia va bene!) e il successo al botteghino è assicurato. Bambini più o meno saggi, più o meno maltrattati, coinvolti in avventure che spaziano dal dramma strappalacrime alla commedia che dovrebbe far ridere: fino ai bambini non ancora nati di  Senti chi parla, fino al francamente insopportabile Maculay Culkin...E’ una invasione di faccine smunte, di corpicini immaturi, di manine tozze.

Per noi italiani due prototipi televisivi di questa invasione sono stati il Rusty di Rin-Tin-Tin e il Joey di Furia: rigorosamente senza genitori, rigorosamente allevati da una società (Rusty) o da una coppia (Joey) di soli maschi (e che siamo, donnette?!) e altrettanto rigorosamente legati a un animale che solo loro comprendono, i due bambini vanno incontro alle loro avventure francamente troppo adulte, e ancora una volta si sostituiscono agli adulti per risolvere i problemi che questi non possono capire. Animali e bambini sembrano allora “più intelligenti” degli uomini (maschi): questo è il dato che ricaviamo da decine di pellicole: gli adulti, soprattutto i padri, da soli non ce la fanno proprio; nemmeno a trovare una donna, come ben sa il piccolo Ron Howard di Una fidanzata per papà, il cui padre vedovo ha proprio sbagliato tutto nella scelta del nuovo partner!

            La figura emergente è quella della sostituzione, del crollo dei confini tra età adulta e infanzia ad apparente vantaggio della seconda; qui non si tratta tanto di “tornare come bambini” ma letteralmente del mettersi da parte per lasciar spazio alla diade bambino/animale; la razionalità non serve per risolvere i problemi della vita, occorre la fantasia dei bambini (ma Joey e Rusty, senza le loro bestie, non sembrano poi averne troppa) e l’istinto dell’animale. E’ un vero e proprio invito alla regressione organizzata e consapevole quello che proviene dalle pellicole statunitensi; vi si ammicca in modo indecente alla crisi della figura paterna e della sua competenza/normatività, e lo si fa mormorando all’orecchio dei padri in crisi: “Non preoccuparti, c’è sempre qualche cagnolino guidato da qualche ragazzino che ti risolverà il problema”. Il problema dell’elaborazione di una figura autonoma di infanzia non si pone nemmeno; manco c’è quella adulta! E per le bambine? Niente paura: insopportabile per insopportabile, c’è Shirley Temple a costituire il prototipo delle bambine imbellettate e troppo adulte[20]; questa specie di mini-Lolita dei poveri è alla base di tutti i concorsi di bellezza, di tutti i programmi in cui bambine e bambini vengono esibiti al limite della decenza, ovviamente per compiacere i genitori  e gli altri adulti.

Forse potremo avere maggior fortuna abbandonando le immagini consolatorie e un po’ appiccicaticce dell’infanzia hollywoodiana e rivolgendoci invece a quelle pellicole, sempre “made in U.S.A.”[21], che ci propongono gli aspetti perturbanti e misteriosi dell’infanzia stessa. Lasciamo perdere pellicole come L’innocenza del diavolo, che mettono a confronto un bambino inspiegabilmente cattivo e vizioso con un pargoletto buono e ligio al dovere, propendendo per il secondo in un improbabile finale; partiamo invece da Il Villaggio dei dannati, uno dei due film[22] tratti dal romanzo dell’inglese John Whyndham, I figli dell’invasione[23] (a nostro parere uno dei rari casi in cui la versione cinematografica migliora il libro); la storia è quella di una invasione aliena avvenuta nel villaggio di Midwich (cittadina simbolo della quieta medietà anglosassone fin nel nome); dopo una notte che è trascorsa nell’incoscienza da parte di tutti gli abitanti del villaggio, le donne si ritrovano incinte: i bambini e le bambine che nasceranno saranno caratterizzati da peculiari poteri e costituiranno l’avanguardia di una invasione aliena.[24] L’idea di una maternità come effetto di una possessione aliena è presente anche nello straordinario Alien 3 [25] di David Fincher e in Rosemary’s Baby di Roman Polanski[26], ma per quanto riguarda Il villaggio dei dannati è proprio l’infanzia a costituire l’Altro contro cui il mondo adulto deve organizzarsi; al riparo dalle dimensioni consolatorie, l’infanzia si rivela come “nemica” e “rivale” dell’età adulta:i bambini di Midwich sono tutti uguali (nel film sono anche vestiti allo stesso modo), biondi e bellissimi, ma la loro medietà è in realtà proprio quella degli adulti che popolano il villaggio; basta insegnare una cosa a uno dei bambini perché la apprendano anche gli altri o le altre: si tratta di un unico corpo collettivo pronto a distruggere il mondo adulto, che se ne deve difendere.  La psicoanalisi definisce “complesso di Laio” la sindrome che vede l’adulto terrorizzato dal bambino che un giorno lo spodesterà dalla sua posizione di potere, e forse è proprio questo ad essere in gioco nello scontro mortale tra gli adulti di Midwich e quelli che comunque sono i figli delle loro donne; i bambini dagli occhi bianchi di questo terribile film non sono solo alieni: qui il problema non è tanto che ci siano di mezzo bestioni verdi o alghe intelligenti, il pericolo viene dall’interno della civiltà, e proprio da quelle creature che noi, uomini e donne d’Occidente, non ci sogneremmo mai di sterminare. Altra storia di possessione, stavolta con una protagonista al femminile, L’esorcista, tratto dal bel romanzo di William Peter Blatty; la piccola Regan, posseduta da Satana, affronta con durezza il povero padre Karras fino a distruggerlo e ad uccidere anche uno straordinario Max von Sidow; anche qui l’infanzia sembra abitata da qualcosa di altro da sé; e infatti, quando tutto passa e Satana torna ai suoi lidi, Regan torna una bambina normale, un po’ pallida ma non più impegnata a dire parole sconce parlando al contrario!  Tematiche, queste di una infanzia aliena proprio perché troppo vicina all’età adulta, di una infanzia sanguinaria e assassina, che sono proprie del romanziere americano Ray Bradbury; ed è proprio da un racconto di Bradbury[27] che è stato tratto il film per la TV Il Piccolo assassino, purtroppo dal finale amputato (censurato?); il bambino qui è assassino anche senza essere alieno, è al di qua del bene e del male ma questo significa che sceglie di essere nel territorio di ciò che l’adulto chiama “male”: uccide, distrugge, fa del male al prossimo, seguendo solamente il suo cieco egoismo; è uno dei fantasmi che spesso gli adulti (madri, padri, educatori/trici, insegnanti[28]) associano all’idea di infanzia: il bambino come distruttore, come portatore di discordia all’interno della coppia; l’invidia paterna per la diade madre-bambino; l’infanzia che prosciuga l’adulto, che ne invade i territori e i tempi, che lo costringe a mettersi sulla difensiva.

Sembra allora che le immagini d’infanzia più interessanti provenienti dalla celluloide “made in USA” nascano da quei film che l’infanzia la trattano male, utilizzandola come schermo per la proiezione dei peggiori istinti (adulti, non c’è bisogno di dirlo); sembra che proprio l’altro volto dell’infanzia, quello brutto, sporco e cattivo ci restituisca una idea concreta e sincera del bambino e della bambina ma soprattutto dell’immaginario adulto attorno all’universo infantile; ma c’è indubbiamente dell’altro, ovvero ci sono pellicole e autori che hanno saputo scoprire i segreti dell’infanzia senza peraltro operare invasioni e senza mitizzare i bambini e le bambine; è il caso di Steven Spielberg che già in Incontri ravvicinati del III tipo ci aveva presentato un bambino tra i destinatari del messaggio musicale degli extraterrestri, e che con la bellissima figura di Eliot in E.T. l’extraterrestre[29] ribadisce che il dialogo tra bambino e alieno funziona perché è un dialogo tra due diversità, tra due esclusioni[30], al riparo da quelli che rimangono i detentori del potere e che non potrebbero mai capire messaggi che vengono da Altrove. Come non citare poi Stand by me, per la regia di Bob Reiner da un racconto di Stephen King, storia di preadolescenti in fuga ma anche in ricerca, in perenne sfida con un mondo adulto che non li sa ascoltare né capire, e che va loro incontro come un treno in corsa, dal tragitto del quale scostarsi all’ultimo secondo; in un’epoca in cui i ragazzi e le ragazze sembrano sfuggirci, essere sempre “altrove” questo film ci aiuta a interrogarci sul nostro essere altrove, ovvero sul nostro investire i ragazzi e le ragazze con la potenza di un treno che è sempre consapevole di essere sul binario giusto; infine, Il Monello, il più grande film di Charlie Chaplin[31], che, con l’eccezione della scena kitsch del sogno, mette ulteriormente a confronto due solitudini e due esclusioni; il lieto fine non cancella a nostro parere le violenze subite dai due amici, simboleggiati dalla scena (diventata un poster) nella quale Chaplin e Coogan si nascondono dietro un lampione, mentre il poliziotto da cui stanno fuggendo troneggia alle loro spalle con tutta la sua arrogante fisicità.          

Qualcosa da salvare c’è, allora, nell’infanzia dei film statunitensi; soprattutto quando si tratta di una infanzia vista “a rovescio” o considerata come metafora dell’esclusione[32]; ma le cose devono ancora evolversi oltreoceano per poter raggiungere la sensibilità verso l’infanzia mostrata dai cineasti del Vecchio Continente; andiamo dallo sguardo straordinariamente privo di retorica sull’infanzia violata nel nazismo di Arrivederci ragazzi di Louis Malle, alla penetrazione pudica e leggera nel mondo infantile del  Francois Truffeau di Il Ragazzo Selvaggio, Gli anni in tasca o I Quattrocento colpi o del Luigi Comencini di Incompreso (al di là del melodramma, però stemperato per tutto il film dal sottile umorismo) o di  Voltati Eugenio; dalla denuncia del Lattuada di I bambini ci guardano alla sottigliezza sociologica e psicologica (e magica!) dell’Ingmar Bergman di Fanny e Alexander; da Martone ad Amelio, passando per  la Archibugi e per lo straordinario Benigni di La vita è bella; non c’è dubbio: sul grande schermo i bambini e le bambine stanno meglio a casa nostra che negli States: troppa ricerca della facile lacrima, troppi ammiccamenti, troppo inviti alla complicità caratterizzano il bambino in Superotto di Hollywod. E ancora meglio rischiano di essere presentati, i fanciulli, dalla cinematografia del Sud del Mondo se le promesse di uno splendido film come Yaaba di Idrissa Ouedraogo saranno mantenute.

Il bambino nel film non ha bisogno della complicità dell’adulto; spesso la sua infanzia è giocata in contrapposizione all’età adulta, ed è giusto che così sia; certi splendidi reportages sulla guerra in Bosnia nei quali parlano solo i fanciulli ce lo ricordano; ci piacerebbe che il bambino e la bambina dei film del III millennio riscoprano la loro identità a partire dalla scena finale di Pink Floyd The Wall di Alan Parker, nella quale un bimbetto, trovando tra le macerie del Muro una bottiglia molotov, le toglie lo straccio che fa da miccia, la annusa e poi, disgustato, la vuota e le getta via.

3. Il colore del grano. Amici nascosti nei libri

In Svezia Astrid Lindgren[33] è considerata un po’ come da noi un Alessandro Manzoni o un Giacomo Leopardi; non c’è libreria di Stoccolma che non esponga le sue opere in uno specifico settore a lei dedicato, vi sono delle vie e delle piazze che le sono state intitolate, non c’è adulto che non la conosca e non abbia letto almeno una delle sue opere; confrontando la sua fama con il carattere ancora un po’ “clandestino” delle discussioni su Gianni Rodari  la dice abbastanza lunga sulla diversa cultura dell’infanzia presente nei due Paesi; iniziando questa nostra rassegna di alcuni personaggi infantili nella letteratura (che sia per ragazzi o per adulti) che riteniamo emblematici da qualche punto di vista, dobbiamo sottolineare la grande sensibilità per il mondo dell’infanzia dimostrata dall’autrice di Pippi Calzelunghe; la bambina “magica” che vive a Villa Villacolle con una scimmietta (il signor Nillson) e un cavallo bianco, che dorme con la testa sotto le coperte e fa impazzire la maestra (chiedendole poi scusa) il suo primo e unico giorno di scuola, rappresenta con la sua magia una fuoriuscita dal doppio stereotipo del bambino e della donna; come provenisse davvero da un altro pianeta, Pippi mette tutte le sue stranezze (esibite in modo del tutto impudico) al servizio dell’amicizia e la sua straordinaria forza fisica a disposizione dei deboli e dei bambini più piccoli; la sua tenera amicizia con Tommy e Annika mette comunque a nudo la “normalità” degli altri due bambini, normalità che non viene mai fustigata dall’autrice svedese ma che comunque non può non generare stupore nel lettore o nella lettrice se posta a confronto con il mondo colorato e folle di Pippi. L’immagine della bambina come “altra” si colora qui delle tinte del mistero, e nulla di questo viene perduto nella versione televisiva che ai trentenni italiani attuali ricorda la loro infanzia[34] come nella delicatissima versione a fumetti[35]. Forse le infanzie di Pippi, Tommy e Annika sono giocate “contro” gli adulti, come dimostra l’episodio delle Cunegunde, pasticche che i tre fanciulli ingoiano per non diventare mai grandi (anzi, per rispetto della rima, “grundi”); ma in realtà lo sguardo che Pippi lascia scorrere sul mondo adulto non è di denuncia ma di straniamento e di leggero compatimento, un po’ come quello disegnati sul volto di molti adulti quando guardano i giochi dei bambini!. Altro  bel personaggio della Lindgren, reso noto al pubblico italiano dalla versione televisiva sempre andata in onda negli anni Settanta e della quale invochiamo fiduciosi una replica, Emil, il bambino “cattivo” che dopo ogni marachella, per sfuggire le punizioni del padre, si chiude nella falegnameria a intagliare statuine in legno; al ritmo di una statuina per ogni birbonata, ovviamente la falegnameria è piena delle sculture del bambino, che testimoniano di una capacità creativa straordinaria, messa però in evidenza più nella creazione di marachelle sempre nuove che nel semplice lavoro di scultura. Emil smuove la nostra simpatia proprio perché ci conduce a non accettare lo stereotipo del bambino cattivo; e la falegnameria diventa un luogo di elaborazione e di crescita, quasi uno spazio fisico di resistenza contro il dominio dei grandi, un elaboratore del proprio diventare adulti senza rinunciare al gusto dello scherzo e della parodia.

Che dire di Gianni Rodari, se non che meriterebbe molto più rispetto e attenzione anche dal punto di vista “istituzionale” di quanta ne abbia ricevuta in questi anni? Tra le tante figure che popolano la sua opera, ci permettiamo di scegliere il “doppio” Marco/Marcus protagonista di quel racconto che mette in scena una vera e propria utopia: Il pianeta degli alberi di Natale.[36]; il giorno del suo compleanno Marco bambino del Testaccio, si ritrova sul Pianeta degli Alberi di Natale, dove fa amicizia con il suo “doppio”, Marcus: il pianeta è una vera e propria utopia realizzata, senza guerra né scambi commerciali, con il Palazzo rompi-tutto per i bambini che si vogliono sfogare e i concorsi per nonni che sanno raccontare le favole. E’ il contrappunto preciso del Paese sbagliato[37] di Mario Lodi, nel senso che il pianeta rodariano risponde punto per punto alle deficienze della cultura dell’infanzia nella nostra nazione evidenziate dai bambini del maestro di Vho di Piadena; sogno o realtà? A giudicare dalla polvere cosmica che Marco ritrova sulle pantofole una volta sveglio, potremmo dire sogno da costruire, da parte degli adulti a partire dalle intuizioni dei bambini.

Personaggio decisamente “politically in-correct” è la protagonista de L’incredibile storia di Lavinia, nata dalla delicata fantasia di Bianca Pitzorno[38]; Lavinia è una specie di piccola fiammiferaia che riceve un dono magico da una sorta di strana strega; fin qui nulla di nuovo, solo che l’anello ricevuto in dono ha la proprietà di tramutare qualsiasi oggetto o persona... in “cacca”; da qui prende il via una delle più belle storie “escrementizie” mai scritte, storia che possiede l’invidiabile pregio di prendere sul serio la dimensione della “cacca” e dell’innamoramento che i bambini e le bambine provano per questo elemento; del resto, Lavinia imparerà la lezione freudiana secondo la quale il controllo degli escrementi propri e altrui equivale simbolicamente al possesso del denaro, e diventerà una insopportabile e cattiva snob finché un fanciullo innamorato non riuscirà a salvarla dal suo diventare, per equivoco, essa stessa “cacca”. Paure relative al controllo sfinterico, angoscia di dissoluzione, magia e disgusto delle secrezioni: argomenti troppo spesso lasciati in ombra nella letteratura per e sull’infanzia, che ci presenta troppo bambini puliti e bimbe che non hanno mai bisogni fisiologici! La “cacca” viene non tanto riabilitata quanto messa al suo posto; è una cosa della vita ma è anche una metafora con cui giocare, come fa Marco Moschini nel delizioso Diritti e rovesci del popolo dei bambini[39] dove i “prepotenti” che maneggiano i fucili e vogliono combattere si vedono attribuire da un mago bambino “le mani di cacca/e se vorranno fare la guerra/tutti i fucili cadranno per terra”[40]

Infine, qualche parola su personaggi infantili di una letteratura per adulti che spesso è “al margine”, nel senso che riesce a mettere in scena una sensibilità nei confronti dell’infanzia che probabilmente non è del tutto...adulta nel senso meno nobile del termine! Iniziamo con Pel di Carota di Jules Renard[41], vera educazione sentimentale di un fanciullo che “segnato” nella pelle (o meglio nel cuoio capelluto) dai segni di una differenza supplementare rispetto a quella comunque determinata dall’essere infante riesce a mutare il proprio egocentrismo in una sorta di centro gravitazionale attorno al quale si snodano figure di un mondo magico; la natura (della quale Renard fu grande interprete) è il luogo privilegiato delle esplorazioni di Pel di Carota; ma anche il mondo della società adulta, con i suoi riti, le sue stranezze e le sue ingiustizie, si presenta agli occhi del fanciullo come “natura”, come mondo difficile da comprendere e decodificare nella sclerotizzazione dei suoi riti e ruoli, e semmai da prendere con ironia, da esorcizzare con anarchica e sfrontata fantasia[42]. La stessa fantasia che Cosimo di Rondò, Il barone rampante[43] mette tutta in un gesto, quello di salire sugli alberi non tanto per sfuggire alla punizione paterna ma per cogliere da “totalmente altra” angolazione la vista della Terra; capisce poco della situazione il fratello, voce narrante del racconto, quando chiede a Cosimo  di tornare giù: “Ormai quello che volevi dire l’hai detto, abbiamo capito, è stata una gran forza d’animo la tua,  ce l’hai fatta, ora puoi scendere. Anche per chi ha passato una vita in mare c’è una vita in cui si sbarca”[44]; frase infelice da dire a un marinaio, che vorrebbe proprio morire in mare e nella profondità oceaniche essere  disperso; ancora più infelice se detta a Cosimo, che forse rimane sugli alberi non tanto per una questione troppo adulta di coerenza quanto perché chi ha attinto sulla realtà un punto di vista così radicalmente diverso non lo può più lasciare per tornare alla normalità; fedeltà all’infanzia, dunque, quella di Cosimo, che cresce ma rimane fedele alla scelta di radicale alterità compiuta da bambino[45]; fedele fino alla sua fine, che lo porta in cielo con una mongolfiera e poi lo lascia vagare non si sa dove, certo non molto distante dal luogo dove volteggia Roberto-che-vola.

Sono due infanzie meridionali, quelle narrate da Saverio Strati in Tibi e Tascia[46], canzone della fine dell’infanzia e del disincantamento del mondo; le prime pagine di questo romanzo ci restituiscono fin nella struttura sintattica dei dialoghi tutta la portata del gioco infantile e della spensieratezza con la quale un bambino e una bambina di Calabria cercano invano di esorcizzare la miseria e le disparità sociali; Strati, sempre grande interprete dello sguardo infantile e adolescenziale sul mondo, riesce a farci entrare nell’universo infantile e al contempo a denunciare le ingiustizie sociali proprio astenendosi dal farne una denuncia diretta; tutto è visto dall’angolatura dei bambini, il punto di vista è spostato in basso, le ombre e le sagome sono deformate, e la magia, il lirismo, il mondo del giuoco viene violentato a più riprese dal mondo adulto ma possiede la straordinaria capacità di cicatrizzarsi immediatamente, di chiudere le ferite e di tornare come prima;  non in eterno, però: perché giungerà il tempo della disillusione, e questo mondo perfetto, sferico, trasparente esploderà come una bolla di sapone. Tiberio[47], maschio, avrà nella cultura la sua possibilità di emancipazione (ma solo grazie all’intervento filantropico della famiglie benestante); Natascia, femmina, dovrà andare a lavorare nei campi, perderà il padre per malattia, continuerà la tradizione che opprime la sua classe sociale e il suo sesso; l’infanzia è finita, l’angelo con la spada fiammeggiante che impedisce il ritorno in paradiso, ora si è uomini e donne sfruttati, e nulla più.

Chiudiamo con una notazione sul Piccolo Principe[48], testo che ovviamente meriterebbe una analisi di parecchie pagine; ci soffermiamo solamente sullo straziante finale, in realtà anticipato dall’addio della volpe al Piccolo Principe; l’animale, nel salutare piangendo l’amico che lo ha addomesticato, dice che ci guadagna “il colore del grano”, ovvero il colore biondo dei capelli del bambino; il Piccolo Principe sceglierà consapevolmente (ma aiutato in qualche modo dall’adulto) di morire alla propria infanzia, di scomparire assumendo un’altra identità (“sembrerà che sia morto ma non è così”[49]); stavolta l’infanzia  muore perché la sua morte è l’unico viatico per una vita adulta; nel diventare grandi si è ineluttabilmente soli di fronte al terribile compito della crescita (“lasciami fare un passo da solo”[50]) ma  vale la pena di morire alla propria infanzia se nel ricordo, nella fedeltà, nella responsabilità nei confronti di altri (“Io sono responsabile della mia rosa”[51]) si scopre la struggente dolcezza del lavoro educativo. Val la pena di non essere più bambini e bambine, se si può in questo modo, da adulti, aiutare altri ad esserlo fino in fondo, con gioia e serenità; “cadde dolcemente come cade un albero”[52], come una cosa naturale, senza violenza e senza ingiustizia; e il romanzo si chiude sulle parole che ogni educatore o educatrice sente risuonare dentro, quando l’ultimo dei suoi allievi se ne è andato per il mondo: “per favore, ditemi che è tornato.”[53]

4. Se non son orfani... Cartoni animati e genitori dispersi.

I cartoni animati proposti dalla televisione italiana, pubblica quanto privata, non hanno sempre  bambini per protagonisti; ma quando ciò accade, soprattutto se  il cartone è di produzione giapponese, possiamo stare sicuri che ci troveremo al cospetto di qualche povero orfanello dalla famiglia spezzata, alla ricerca della mamma perduta o comunque straziato da vicende famigliari al limite del narrabile; ha in qualche modo aperto le danze Heidi, cartone animato peraltro gradevole nel quale la piccola neo-pastorella non soffriva poi così tanto la mancanza della mamma e del papà; il nonno, il cane Nebbia e l’amico Petar, insieme ai dolci tratturi di montagna e al verso delle pecorelle le facevano compagnia; le storie di Heidi ci riportano all’idillio bambino/natura piuttosto sfruttato dal punto di vista commerciale, ma in questo caso disimpegnato con un certo buon gusto; le cose si complicano quando Heidi è costretta a trasferirsi in città: qui la contrapposizione città/campagna viene rappresentata con toni caricaturali che ricordano le favole sul topo di città e il topo di campagna; quello che la città offre ad Heidi è la cattiveria della governante, la signora Rottenmeyer, la rigidità dell’educazione, lo smog e la nostalgia dei pascoli; troverà anche un’amica,  Clara, che ha una famiglia più o meno integra ma non l’uso delle gambe (non si può aver tutto da un cartone!); solo ritornando nell’amata montagna Heidi ritroverà la serenità e Clara la salute. Idillio alpestre ingenuo, che però non è nulla in confronto a Remi, vero e proprio atto di terrorismo psicologico nei confronti dei piccoli spettatori; circondato dalla scimmietta e dal cane (potevano mancare gli animali) Remi vaga per il mondo a prendere frustate dagli sfruttatori e a tremare di fronte agli adulti; e anche quando gli orfanelli trovano  una famiglia “sostitutiva” non sono certo felici: lo dimostra la povera Candy Candy, umiliata dalla matrigna e dalle sorellastre.

Insomma, per poter entrare nel mondo dei cartoni animati, almeno di quelli degli anno Ottanta, occorreva almeno essere orfani e poi, se possibile, anche maltrattati; e il carattere di orfani riabilitava il bambino e la bambina, che, proprio perché muovevano a pietà e compassione, diventavano bellissimi e dolcissimi, come testimoniano le terribili sigle dei cartoni, secondo le quali Heidi è “tenera/piccola/con un cuore così”, Remi è  “dolce”, Candy Candy è addirittura “zucchero filato”. Questo voyeurismo nel mondo della miseria e dello sfruttamento che non denuncia ma si compiace del sadismo pedagogico implicito nell’osservare un fanciullo che soffre tocca il suo apogeo in Marco, trasposizione in cartone animato del racconto Dagli Appennini alle Ande di de Amicis; operazione nella quale si toccano punti di retorica e melensaggine addirittura superiori a quelli raggiunti da Cuore (ed è tutto dire)

D’altro canto, a giudicare dalla produzione giapponese, i bambini e le bambine soffrono sempre, anche quando si divertono[54] Mimì e le ragazze della pallavolo, Milo e Shila, Holly e Benji sono rispettivamente tre giocatori di volley e due calciatori, sempre alle prese con allenatori sadici, sedute di allenamento devastanti, e lunghissimi campi che non finiscono mai; lo sport come attività di assoggettamento e l’allenamento come pratica di sofferenza: ovvero, lo sport come sfida da vincere solo se si sa soffrire, star male, sentire i muscoli indolenziti, sacrificare tutto il proprio corpo e la propria anima;  meglio allora Gigi la Trottola, che gioca a pallacanestro in modo folle e disincantato, senza badare troppo al punteggio, e mettendo in mostra acrobazie improbabili ma perlomeno sottratte a ogni forma di disciplina repressiva.

Qualche cartone animato si mette però in luce per la sua specificità; anzitutto, Lady Oscar, storia di una bambina nata alla corte di Francia ed educata come un maschietto; le tematiche della differenza di genere sono qui trattate con una certa delicatezza e sensibilità; è il processo educativo della fanciulla “travestita” da ragazzo ad essere osservato con una certa ironia, processo che è stato avviato dalla profonda delusione relativa al sesso dell’erede; è interessante partire da questo cartone animato per riflettere anche con i bambini e le bambine sui condizionamenti sessisti che sono presenti nei processi  formativi. Passiamo poi a Bart Simpson, cartone animato “cult” della nuova generazione di bambini e teen-agers statunitensi, sbarcato da poco anche in Italia; dovuto a un’idea di Matt Groenig, Bart Simpson rappresenta perfettamente quell’infanzia senza sogni, senza desideri e senza nulla da perdere o da guadagnare nel processo di crescita che da qualche decennio pedagogisti attenti stanno descrivendo; Bart è il prototipo del bambino che deve imparare a cavarsela ma che in fondo ha ben poco interesse anche in questa attività; è come se l’autoconservazione dell’individuo non fosse più la cosa fondamentale, non costituisse più una sfida; nell’America dove ogni giorno 13 ragazzi si suicidano, 16 sono assassinati, 36q0 sono aggrediti fisicamente, 630 sono derubato, 60 violentati[55], occorre imparare a sopravvivere; ma la lezione di Bart è che in fondo, ad essere in gioco in questa corsa alla sopravvivenza, non è poi granché:

Per lui affrontare la vita è una faccenda seria, complicata. E non c’è da contare sull’aiuto di nessuno, eccetto che su qualche colpo di fortuna. Bisogna essere prima di tutto resistenti, diventare ottimi incassatori e soprattutto conviene stare alla larga dalle grane. Il risultato non sarà granché, ma in fondo cosa ti aspettavi?[56]

            Occorre imparare a diffidare di tutti, anche di se stessi, e soprattutto far proprie le regole di quella navigazione a vista , di quel momentaneo e precario equilibrio da surfer che sembra essere l’unico modo possibile di vivere negli States del Duemila:

Bart, 10 anni, è il fattore disordine in questo gioco di specchi;  lui, contrariamente a papà Homer non si fa fregare. E’ un media leterate, non cade nelle manipolazioni, reagisce all’alienazione culturale che lo circonda con le armi di un guerriero della generation next, quella che diventerà maggiorenne nel terzo millennio[57]

Forse proprio la competenza mediatica di Bart ne fa l’icona delle nuove generazioni dei “bambini senza infanzia” degli Usa pronti a colonizzare anche l’infanzia del Vecchio Continente, e oltre; si tratta di una generazione talmente avvezza a trascorrere ore, giorni, anni davanti agli schermi da essersi impadroniti di tutte le strategie della persuasione occulta, ma che invece di fare uso di questa competenza per elaborare strategie di resistenza si acquatta nella consapevolezza che tutto è fregatura, tutto è pubblicità, tutto è cancellabile dalla faccia della Terra con uno zap del telecomando; lo zapping sarà il gesto emblematico del nascente XXI secolo come lo scatto del fotografo lo è stato del XX; e sarà un secolo dei giovani invecchiati precocemente, caratterizzati da una completa disillusione nei confronti della pubblicità, della televisione, dei video, indolente perché solamente l’indolenza gli permette di sopravvivere; cosa sarà Bart da adolescente? Probabilmente un compagno di Beavis & Butt-Head, “cartoni animati al gusto di alienazione generazionale adottati da milioni di adolescenti americani, solidali con le loro imprese di piccolo teppismo suburbano”[58], cartone “politically in-correct” che ha fatto gridare allo scandalo più di un senatore repubblicano, ma che si limita a mostrare gli adolescenti Usa “as they are”, così come sono, con i loro afrori, i loro sudori, il loro intercalare volgare fintamente trasgressivo; ma

apparentemente B&B satireggiano i loro coetanei; in realtà i due personaggi mettono in scena un corso accelerato di scetticismo e ironia, armi di difesa indispensabile in un ragazzino del 2000

            Ironia della storia e dei suoi ricorsi, B&B sono praticamente orfani; vivono con la madre, non hanno padre; nella triste parabola di una generazione già sconfitta prima ancora di sognare o  immaginare le possibile lotta, si chiude il cerchio degli orfani nei cartoni animati; e quello che Heidi trovava nel latte di vacca appena punto, non vale la pena, per Bart o per Beavis e Butt-Head di cercarlo da nessuna parte, nemmeno nella nuova bibita per i giovani che ti intima: “Ascolta la tua sete!”

5. “Saprai perché...”. L’infanzia mitizzata dei cantautori italiani

Presente solo a tratti nell’immaginario della canzone italiana, l’infanzia fa capolino nei testi dei cantautori soprattutto sotto il duplice segno della nostalgia per un tempo perfetto perduto per sempre e della denuncia di  un territorio violato dalla violenza adulta. Archetipo della trattazione dell’infanzia da parte della generazione aurea dei cantautori, se non vogliamo parlare delle belle canzoni per l’infanzia di Sergio Endrigo (La casa dei matti; Ci vuole un fiore) è Cara maestra di Luigi Tenco, accorata rassegna/denuncia di figure pedagogiche negative che hanno condizionato con la loro falsità e ipocrisia la crescita dell’allora fanciullo Luigi:

Cara maestra, un giorno ci insegnavi

che al mondo gli uomini sono tutti uguali;

ma quando entrava in classe un professore tu ci facevi alzare tutti in piedi

e quando entrava in classe uno studente ci permettevi di restar seduti.

Ce n’è poi anche per il “signor curato” e per l’”egregio sindaco” che disegnano la mappa di una generazione adulta certamente poco fedele ai suoi principi e alle sue promesse; il “topos” della crescita come perdita di spontaneità e come dannazione è però quello più diffuso nella canzone d’autore italiana quando questa parla di infanzia; basti pensare ad esempi quale Topolino della P.F.M.:

Sfogliando un vecchio Topolino mi ricordo quando da bambino

sentivo un uomo parlare e io attento a sentire

“Diventa grande e te ne accorgerai” diceva

Poi con le mani nelle tasche vuote se ne andava via

da quell’unica stanza gialla di periferia

            Situazione di deprivazione e di miseria morale e materiale dalla quale si esce con un gesto di rottura e di ribellione;

Poi dentro a un bar dall’odore di latte e con la musica accesa

ho imparato a dire il mio primo “Ma chi se ne frega”

che in un certo senso porta l’adulto a recuperare la spontaneità del bambino o perlomeno a dare inizio a una attenzione nuova nei confronti del mondo dell’infanzia (siamo di fonte peraltro  uno dei pochissimi esempi di ribaltamento finale del punto di vista, di riflessione sulla propria infanzia che porta a una nuova consapevolezza adulta del mondo dei bambini e delle bambine:

Domani troverò un sorriso caduto dalla tasca di un bambino

che dice per primo “Tienilo tu”, poi guarda in alto e non ci pensa più

e sta a vedere che oggi nel cielo volerà un pensiero

allora prendilo, prendilo al volo fallo tuo davvero.

Consapevolezza negata dal processo educativo descritto da Edoardo Bennato in Quando sarai grande, processo che si svolge completamente alle spalle del fanciullo e si rivela anche in questo caso come una promessa non mantenuta

Il vuoto e poi... ti svegli e c’è un mondo intero intorno a te

ti hanno iscritto a un gioco grande; se non comprendi, se fai domande

chi ti risponde ti dice “E’ presto; quando sarai grande, allora saprai tutto.

Processo educativo dal quale sono peraltro escluse le impennate di originalità e di individualità; la terra dell’infanzia, con la sua perfezione, è destinata ad essere trattata dagli adulti come un oggetto da studiare, catalogare, instradare:

E’ tutto scritto, catalogato: ogni segreto, ogni peccato.

E anche dove il processo di crescita non viene visto solamente come tradimento e dannazione, rimane il senso dell’infanzia come isola felice; accade in Crescerai dei Nomadi

Bastava un niente per sorridere, una bugia per esser grandi

Crescerai, arriverai; crescerai tu amerai

il rimpianto rimarrà per quell’età.

            come in Quella carezza della sera dei New Trolls

         Non so più il sapore che ha quella speranza che sentivo nascere in me

         non so più se mi manca di più

         quella carezza della sera o quella voglia di avventura

voglia di andare via di là.

Il rapporto tra bambino e adulto, soprattutto nel caso delle figure parentali, è un altro “topos” molto sfruttato dai cantautori, in particolare nella vera e propria moda delle canzoni dedicate ai figli;  c’è l’elenco un po’ melenso delle avventure e sventure della vita di Avrai di Claudio Baglioni

Avrai carezze per parlare con i cani, e sarà sempre di domenica domani

avrai discorsi chiusi dentro e mani che frugano le tasche della vita

e una radio per sentire che la guerra è finita.

l’elegante ironia di Culodritto di Francesco Guccini:

Anche se non avrai le mie risse terrose di campi cortili e di strade

e non saprai che sapore è il sapore dell’uva rubata a un filare

presto ti accorgerai com’è facile farsi un inutile software di scienza

e vedrai che confuso problema è adoprare la propria esperienza

            Infanzia forse un po’ mitica, ma che restituisce senso e significato all’esperienza di paternità nella quale ci si butta con consapevolezza ed emotività:

Culodritto: dammi ancora la mano

anche se quello stringerla è solo un pretesto

per sentire quella tua fiducia totale che nessuno mi ha dato o mi ha mai chiesto

Infanzia come terra vergine, quasi come “tabula rasa” che può ripartire da quel grado zero dell’esperienza che per l’adulto è negato:

Vola tu dove io vorrei volare, verso un mondo dove è ancora tutto da fare

e dove è ancora tutto, o quasi tutto, da sbagliare

c’è poi la bella metafora di Fiore di maggio di Fabio Concato

Tu che sei nata dove c’è sempre il sole

sopra uno scoglio che ci si può buttare

(...) su quello scoglio in maggio è nato un fiore

Ci sono poi le canzoni dedicate ai genitori nelle quali si elabora in modo più o meno positivo l’addio, il distacco legato al diventar grandi, al lasciare il nucleo famigliare; in modo un po’ melenso in Portami a ballare di Luca Barbarossa

Dai, mamma, dai, questa sera lasciamo qua

quei problemi e quei discorsi sulle rughe e sull’età

Io ti voglio sempre bene anche quando non ci sono

io ti porto ancora dentro anche adesso che sono un uomo.

o poetico e struggente come in Ninni di Roberto Vecchioni, incontro tra madre e figlio (cresciuto) nello scompartimento di un treno

Ed entrò qualcosa di lieve, come sole in mezzo alla neve, ed avrei voluto dirti “Sono io”

Dirti “Guardali bene che cambieranno; come è giusto domani ti lasceranno;

dire al piccolo finché puoi ‘Stiamo insieme’”

            togliendo poi dalla memoria e dall’immaginario un delicatissimo gesto materno:

Perché il tempo mi passa e mi passa sopra

e tu entravi dicendo “Vuoi che ti copra? Ninni è tardi, fa freddo, stai già dormendo”

            che in qualche modo resta come traccia di memoria e fedeltà alla figura materna:

Tu sei bella e mi guardi senza parlarmi, non ti sei neanche accorta di assomigliarmi

e non sai quanta voglia avrei di dirti

che tuo figlio non è cambiato, era solo ma si è aspettato

ed è sempre come lo chiamavi tu

C’è un invito a non ascoltare le prediche dei padri, in Padre Nostro di Renato Zero (un po’ retorica, per la verità):

Tuo padre dice “No” ma neanche lui è convinto che intorno a te sia tutto finto

magari lui non sa che in silenzio stai cambiando, che hai in mente un più accogliente mondo

Spiegagli come si fa a sperare, insegnali tu ad avere cuore

Non sarà colpa sua se ignora che dal letame un bocciolo prima o dopo affiora.

Tuo padre dice “No”, tu lascialo parlare: ormai sei a un passo dall’amore.

C’è infine l’incontro con la figura paterna come recriminazione, irato e non pacificato sguardo alla Franz Kafka di Lettera al padre su un rapporto che non ha saputo essere profondamente educativo ma ha lasciato solo un senso di conflitto non risolto, come nella terribile, Quando la morte avrà che Claudio Lolli[59] dedica impietosamente al padre:

Quando la morte avrà abbassato un  po’ le braccia che tante volte già mi avevano piegato

e tu ricercherai i miei capelli, la mia faccia, per farmi la tua prima e ultima carezza

allora ti amerò, allora quando avrai la tenerezza che non hai avuto mai

allora ti amerò ma tu non lo saprai e per tutti e due sarà troppo tardi ormai.

Quando la morte avrà scacciato la paura che per tutta la vita ti è stata concubina

e avrà fatto di te il più grande di noi, l’eroe che si rallegra della guerra vicina

allora ti amerò, allora quando avrai il coraggio che non hai avuto mai

allora ti amerò ma tu non lo saprai e per tutti e due sarà troppo tardi ormai.

Il tema delle infanzie violate entra di prepotenza nella nostra incompleta rassegna; infanzia concepita come territorio vergine sul quale spargere i semi dell’odio e del condizionamento, in In fila per tre di Edoardo Bennato:

Sei già abbastanza grande, sei già abbastanza forte, ora farò di te un vero uomo

ti insegnerò a sparare, ti insegnerò l’onore, ti insegnerò ad ammazzare i cattivi

e sempre infila per tre marciate tutti con me e ricordatevi i libri di storia

noi siamo i buoni e perciò abbiamo sempre ragione e andiamo dritti verso la gloria!

infanzia che per i tristi casi della vita vede sfumare l’esclusività di una amicizia, come in Michel di Claudio Lolli;

Ti ricordi, Michel il giorno che morì tua madre e che tu piangevi tanto che anche il cane

che ti voleva così bene non aveva il coraggio di avvicinarsi un po’?

Ti ricordi, Michel che tristi erano quei giorni, io non sapevo proprio cosa dirti

e che confusione avevo in testa e che stupore sul tuo viso e che voglia di partire?

Ti ricordi, Michel quei due saluti alla stazione, e i lacrimoni venir giù

quando la macchina cominciò a far pressione e tu dovesti salir su?

Ti ricordi, Michel che fretta che avevano tutti di far partire la vettura?

Mentre lento il tuo vagone se ne andava ritornava la paura.

Infanzia immigrata e incompresa, come in Era la terra mia musicata da Ron ma scritta da un bambino di otto anni:

Sette  in comportamento; un cinque in aritmetica,

quattro in lettura eccetera...mi salvo in geografia...è la pagella mia

 Ma perché non me la prendo? Conosco già la musica

le botte e poi la predica stasera a casa mia: una burrasca e via.

Invece di discutere ritornerei a Napoli a stare coi miei nonni

Sembrava così facile quando studiavo a Napoli capire la lezione

c’era più confusione ma c’era più allegria nella famiglia mia

perché era la terra mia.

infanzia stritolata dai meccanismi della mafia in La fotografia di Enzo Jannacci

E tu commissario che hai continuato a dire “Andate tutti via

andate via, qui non c’è niente da vedere, niente da capire”

Credo che ti sbagli perché un morto di soli tredici anni è proprio da vedere

perché la gente, sai, magari fa anche finta però le cose è meglio fargliele sapere!

Guarda la fotografia: sembra neanche un ragazzino

io son quello col vino e lui è quello senza motorino;

era il solo a non voler capire di esser stato sfortunato

a nascere in un paese dove i fiori han paura e il sole è avvelenato;

e sapeva quanto poco fosse un gioco, e giocava col destino

un destino col grilletto e la sua faccia, la sua faccia nel mirino.

infanzia maltrattata nella canzone che Fabio Concato ha dedicato al Telefono Azzurro:

Ma babbo smettila di bere e non mi picchiare un’altra volta

che ogni volta ho più paura e quando cerco di scappare non arrivo mai alla porta

ho paura di notte...non c’entro niente coi tuoi guai e coi tuoi dispiaceri

non ti ricordi ieri che mi portavi al mare?

Infanzia, infine, che assume la dimensione planetaria e quasi cosmica di simbolo dell’alienazione, della guerra, della distruzione; come in Pitzinnos in sa guerra dei Tazenda, in Canzone del bambino nel vento, portata al successo dai Nomadi e poi da Guccini:

Son morto con altri cento, son morto ch’ero bambino

passato per il camino e adesso sono nel vento;

ad Auschwitz c’era la neve, il fumo saliva lento

nel freddo giorno d’inverno e adesso sono nel vento.

nella recentissima L’ultima superstite dei Modena City Ramblers, descrizione di un massacro nazifascista visto dagli occhi di una bambina:

L’hanno trovata soltanto al mattino, ferita e bruciata ma viva

il postino l’ha messa sulla bicicletta e portata dai parenti in pianura

poi Lilli è guarita e la guerra è finita e i tedeschi se ne sono partiti

ma per molti anni ha sognati gli spari e non le usciva la voce

in I ragazzi dell’olivo dei Nomadi, dedicata ai bambini palestinesi

in quei disegni senza più serenità, niente aquiloni solo amare realtà

niente più azzurri che colorano il cielo, solo pastelli che sporcan tutto nero

in Fiume Sand Creek di Fabrizio de Andrè, storia di una strage in un accampamento indiano narrata da un fanciullo ucciso

I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte

e quella musica distante diventò sempre più forte

chiusi gli occhi per tre volte, mi ritrovai ancora lì

chiesi a mio nonno “E’ solo un sogno?” mio nonno disse: “Sì”

A volte i pesci cantano sul fondo del Sand Creek

Una infanzia, quella dei cantautori, spesso asessuata; se si eccettua qualche rarissimo riferimento all’onanismo, come in Cosa resterà di noi? di Franco Battiato:

La prima goccia bianca che spavento, e che piacere strano

e un  innamoramento senza senso, per legge naturale a quella età

o in modo più incisivo in La bugia di Giorgio Gaber

Credo nella bugia: quando un bambino si nasconde, quando sdraiato timido in mezzo all’erba

non fa niente di male: accarezza il suo corpo e dolcemente si masturba...è così naturale

ma poi non lo può dire.

Com’è strana la nostra morale, se un fatto naturale diventa la tua prima oscenità

com’è assurda la nostra apprensione, ci vuole un’invenzione;

non è per stravaganza o per follia: viva la bugia!

            e soprattutto una infanzia quasi esclusivamente al maschile, se si eccettuano sparuti esempi di bambine protagoniste specifiche delle canzoni (peraltro in questo caso scritte da maschi!) , come in Silvia di Vasco Rossi, che narra i turbamenti di una adolescente alla scoperta di sé e del suo corpo:

Silvia si veste davanti allo specchio, e sulle labbra un po’ di rossetto

andiamoci piano, però, con il trucco, se no la mamma brontolerà

“Silvia fai presto, che son le otto; se non ti muovi fai tardi lo stesso

e poi la smetti con tutto quel trucco, che non sta bene; te l’ho già detto”

Silvia non sente oppure fa finta, guarda lo specchio poco convinta

mentre una mano si ferma sul seno: è ancora piccolo, ma crescerà

            per concludersi in modo perturbante:

Silvia ora corre verso lo specchio dimenticando che sono le otto

e trova mille fantasie che non la lasciano più andar via

            o nelle strofe iniziali della bellissima Gli uomini non cambiano scritta da Dati, Falagiani e Bigazzi e portata al successo dalla grande Mia Martini

Sono stata anch’io bambina di mio padre innamorata

per lui sbaglio sempre e sono la sua figlia sgangherata

ho provato a conquistarlo e non ci sono mai riuscita

e ho lottato per cambiarlo, e ci vorrebbe un’altra vita

La pazienza delle donne incomincia quell’età

quando nascono in famiglia quelle mezze ostilità

e ti perdi dentro a un cinema a sognare di andar via

con il primo che ti capita e che ti dice una bugia

Utilizziamo due immagini inconsuete per chiudere questo paragrafo; la prima è quella della lettura iniziatica del gioco del calcio proposta da  Francesco de Gregori in La leva calcistica del 68, vera e propria narrazione di un rito di passaggio e di una crescita risolta e felice:

Il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette

quest’altr’anno giocherà con la maglia numero sette

la seconda è quella di un incontro generazionale post-atomico narrato dalla classica Il vecchio e il bambino di Francesco Guccini

Il bimbo ristette, lo sguardo era triste, e gli occhi guardavano cose mai viste

e poi disse al vecchio con voce sognante “Mi piaccion le fiabe: raccontane altre”

            e proviamo, a partire da queste due infanzie “sui generis” ad abbozzare una riflessione: come mai il mondo della musica d’autore degli anno Novanta, che pure ha visto significative novità dopo la relativa stasi degli Ottanta (C.S.I., Gang, Daniele Sepe, Modena City Ramblers, i gruppi dei Centri sociali ecc..) non trova metafore per parlare d’infanzia? Come mai testi straordinariamente impegnati e poetici come quelli dei gruppi e degli autori citati non sembrano in grado di produrre rappresentazioni proprie dell’età infantile? Forse perché siamo di fronte alla prima delle “generazioni senza infanzia” a partire dal dopoguerra? Forse perché l’infanzia è proprio ciò di cui questi trentenni neo-protagonisti della scena musicale seria sono stati privati? Forse perché nessuno di essi ha avuto la ventura di vivere una prima età come quella del Guccini di Piccola Città, passata a scorrazzare incoscienti e infelici “fra la via Emilia e il West”?



[1] Si fa riferimento qui, come dovrebbe risultare chiaro da quanto segue, a una funzione reazionaria ed estetizzante dell’idea di nostalgia, che si volge impotente ad osservare da lontano quanto è stato perduto senza avere la forza e l’intenzione di risolvere i problemi del quotidiano nel presente nel quale si vive. Nulla a che vedere con quella forma di  nostalgia per la propria infanzia che sa tramutarsi in passione educativa e che sta alle spalle di molti formatori e formatrici come consapevolezza pedagogica e che mette tali persone nelle condizioni di comprendere fino in fondo il mondo attuale e concreto dell’infanzia proprio nel momento in cui se ne tematizza (con nostalgia) l’infinita distanza che ne separa l’adulto.

[2] Anche qui siamo ben lontani dal demonizzare (come sembra essere ormai di moda) l’idea di Utopia, che anzi ci sembra una categoria ineludibile per il discorso pedagogico (e nei confronti della quale  nutriamo una certa...nostalgia nei discorsi degli educatori e dei pedagogisti contemporanei). L’Utopia si nutre certo dell’immagine dell’infanzia e del ricordo dell’essere-stati/e-bambini/e ma se si limita a indicare l’infanzia come regno della perfezione da raggiungere viene meno a quello che è il suo compito sociale: indicare le categorie per una società giusta. Anche se si nutre della gratitudine per l’infanzia trascorsa, l’Utopia come compito sociale rimane sempre una cosa da adulti! Un mondo utopico è un mondo in cui i bambini e le bambine hanno, come gli adulti, il diritto di essere felici; ma approntare le strutture per rendere possibile tale felicità è cosa da grandi!

[3] Stefano ha 11 anni e va alla scuola elementare, nella quale incontra 4 maestre e maestri. Ha il papà e la mamma e ha la fortuna di avere ancora in vita i 4 nonni. Dopo la scuola va agli allenamenti di  basket, tenuti da un allenatore e  un vice-allenatore. Una volta alla settimana va a catechismo, e una giovane studentessa lo prepara alla futura cresima; infine Stefano suona il pianoforte e due volte la settimana una anziana maestra di piano lo accoglie a casa sua per perfezionare la sua tecnica. Nella sua settimana Stefano incontra 14 adulti che gli dicono che cosa deve fare: senza contare il portiere del suo condominio, i due zii, l’autista dello scuolabus, il custode della palestra ecc. Stefano è un bambino in stato di assedio; ovunque si giri vede adulti. E qualcuno ha il coraggio di dire che ci occupiamo poco dei nostri bambini e delle nostre bambine

La questione ovviamente è più sottile e più complessa di come l’abbiamo semplicisticamente presentata: e più grave. I 14 adulti che contornano Stefano infatti probabilmente non si conoscono tra loro, se non a coppie o gruppi: la maestra di italiano non sa chi sia la catechista, l’allenatore non ha mai visto la maestra di pianoforte, non c’è mai stata una riunione tra maestre ed educatori del cosiddetto “extrascuola”. Il che significa che Stefano non è al centro di un progetto educativo concordato (che richiederebbe molte meno persone e che ovviamente dovrebbe lasciargli molti più spazi di libertà e di rilassamento) ma semplicemente è tenuto sotto controllo da questa catena di figure adulte, che però non fanno quello che gli educatori dovrebbero fare a proposito di un ragazzo: restituirsi a vicenda le immagini di Stefano, confrontando i metodi educativi e i risultati raggiunti.  Questo eccesso di educazione è per Stefano semplicemente un eccesso di controllo, con il quale gli adulti si lavano la coscienza: se attorno al ragazzo c’è sempre qualcuno

[4] Per un approfondimento cfr. la rubrica Educarsi coi fumetti curata da Raffaele Mantegazza e Brunetto Salvarani sulle annate 1996/97 e 1997/98 della rivista Mondialità di Brescia

[5] Lungi da noi l’idea di realizzare nel poco spazio a nostra disposizione una galleria esauriente delle immagini d’infanzia nei mass-media; abbiamo solo selezionato in modo del tutto arbitrario alcune figure che ci suggerivano percorsi e discorsi interessanti (a nostro parere) sull’immaginario sociale attorno all’infanzia.

[6] Ci sembra però che le illustrazioni giochino un ruolo determinante nel testo di Hoffmann, tanto che le (poche) edizioni che ne sono prive hanno davvero poco senso.

[7] Ci riferiamo alla versione del 1947, della quale esistono parecchie traduzioni in italiano; la versione più completa, alla quale ci riferiamo, è quella curata, tradotta e commentata da Sergio Stocchi, edita da Longanesi nel 1986 sotto il titolo di IlPorcospino ragionato e che contiene anche la graziosa Pentimento e conversione di Pierino Porcospino scritta nel 1851 da Karl Ludwig Tiedemann; pregevole il saggio introduttivo di Stocchi, anche se la riscrittura in rima (giustamente preferita alla traduzione letterale) in qualche punto ci lascia qualche perplessità.

[8] Il Porcospino ragionato, cit. pag. 31

[9] Ibidem

[10] Ibidem, pag, 41

[11] Ibidem

[12] Ibidem, pag, 59

[13] Ibidem, pag. 61

[14] Ibidem, pag. 67

[15] Ibidem, pag. 73

[16] Ibidem, pag. 74

[17] Wilhelm Busch, Le avventure di Max e Moritz, Meravigli, Vimercate, 1994

[18] Il disegnatore milanese Silvio Boselli ha creato per le pagine della rivista pedagogica Mondialità il simpatico personaggio di Little Smemo dimostrando profonda conoscenza dell’opera di Mc Cay nonché intelligente sensibilità per le tematiche che in essa vengono trattate.

[19] Proprio come nel Pentimento e conversione diPierino Porcospino, cit.

[20] Una straordinaria denuncia di questi sistema è fornito dal classico Bellissima! di Luchino Visconti con Anna Magnani

[21] Questa scelta non è motivata da una preferenza per la cinematografia d’oltreoceano (come credo risulti ovvio al lettore) ma piuttosto dalla consapevolezza che certe immagini d’infanzia che sono veicolate oggi dai mass-media nostrano siano debitrici della loro forza di penetrazione nell’immaginario collettivo proprio al sistema massmediale statunitense, e che in questo debbano essere indagate le loro radici; una analisi delle pellicole europee o di altra provenienza che hanno avuto il coraggio e la forza di superare e criticare questi stereotipi non rientra negli scopi di questo testo; alla conclusione del presente capitolo ci limitiamo a indicare alcuni films con le relative suggestioni tematiche; ma, come per il fumetto, siamo ben lontani dall’idea di avere presentato rassegne complete!

[22] L’altro è La stirpe dei dannati, del 1963; Il villaggio dei dannati è un bianco e nero del 1960, anche se ne esiste un recentissimo remake a colori; esiste anche un numero del fumetto Martin Mystere, Bambini dagli occhi bianchi in qualche modo ispirato a questa storia

[23] Whyndham, John, I figli dell’invasione, Milano, A. Mondadori, 1959

[24] Il film aggiunge al carattere perturbante dei bimbi alieni l’effetto degli occhi che diventano bianchi e fosforescenti quando essi stanno per commettere qualche omicidio,  effetto assente nel libro.

[25] E non Alien 3: si tratta dell’elevazione al cubo dell’alieno!

[26] I due film andrebbero analizzati per leggere le proiezioni delle paure legate alla gravidanza che caratterizzano le donne americane nei rispettivi periodi; in particolare andrebbe studiata la ricaduta dell’idea di una gravidanza legata a una violenza carnale (per Rosemary’s Baby) e quella legata al possibile handicap del figlio/a (per Alien 3)

[27] Bradbury, Raymond Douglas, Il piccolo assassino, in Paese d’ottobre, Milano, editrice Nord, 1993

[28] Si parla per gli/le insegnanti del “complesso del pellicano” consistente nel timore inconscio di essere del tutto svuotati del proprio sapere da parte degli allievi/delle allieve, e di restare...a becco vuoto; cfr. Aa. Vv., Desiderio e fantasma in psicoanalisi e in pedagogia, Roma, Armando, 1985

[29] In alcuni paesi questo film è stato vietato ai minori di 18 anni perché rappresenta una immagine di adulto nemico dell’infanzia e del “diverso” rappresentato dall’extraterrestre

[30] Forse allora Eliot avrebbe dovuto essere...una Johanna o una Mary, per triangolare l’esclusione dell’alieno e quella del bambino con quella della donna!

[31] Giudizio opinabile, lo sappiamo, di fronte a capolavori quali La febbre  dell’oro, Tempi moderni, Luci della ribalta!

[32] Certo, si tratta spesso di una infanzia asessuata; la dimensione della ricerca del piacere, del passaggio all’adolescenza viene mostrata con una certa ritrosia, e più che altro in film “hard” che rappresentano ragazzi “cattivi” e “perciò” portatori di sessualità; altrimenti, scene come quella del semisconosciuto Crazy Love che mostra un ragazzino che si masturba nel suo letto, sono troppo lontane dal “politically correct” per essere mostrate; e poi il film in questione, peraltro non particolarmente interessante dal punto di vista cinematografico, è tratto da un romanzo di Charles Bukowski, un “maledetto” per antonomasia!

[33] Le opere di Astrid Lindgren sono pubblicate in Italia da Salani

[34] E non per nulla la sua rievocazione è stata uno dei momenti più divertenti del programma Anima mia, RaiTre, 1997

[35] Lindgren, Astrid e Vang Nyman, Ingrid, Pippi Calzelunghe a fumetti, Firenze, Salani, 1996; ne esiste anche una bella e solida versione cartonata per bambini.

[36] Rodari, Gianni, Il Pianeta degli alberi di Natale, Torino, Einaudi, 1962

[37] Lodi, Mario, Il Paese sbagliato, Torino, Einaudi, 1970; le figure di bambini e bambine presenti in questo libro sono indimenticabili per il lettore, come del resto capita in ogni grande romanzo pedagogico.

[38] Pitzorno, Bianca, L’incredibile storia di Lavinia, Torino, Einaudi ragazzi, 1997

[39] Moschini, Marco, Diritti e rovesci del popolo dei bambini. Una proposta di educazione alla pace, Bologna, EMI, 1994.

[40] Ivi, pagg. 58/59

[41] Renard, Jules, Pel di Carota, Torino, Einaudi, 1994

[42] E’ a nostro parere questo sguardo sul mondo adulto che ne vede gli aspetti vuotamente rituali la vera forza del racconto di Renard; quale senso c’è nelle gallerie scavate dalla talpa o nell’organizzazione sociale delle formiche? E quale nella ritualità del sedersi a tavola o nelle regole della buona educazione? Non è la cosiddetta cultura segnata da una dimensione ciecamente naturale proprio nel suo sottrarsi alle indagini che vorrebbero ricostruire il senso e l’origine dei suoi riti?

[43] Calvino, Italo, Il barone rampante, ne I nostri antenati, Totino, Einaudi, 1960

[44] Ivi, pag. 195

[45] Anche se è indubbio che i capitoli più intensi e indimenticabili del romanzo sono quelli relativi al Cosimo fanciullo, in particolare quello che narra la morte della mamma, con il particolare delle bolle di sapone che Cosimo fa volare dal ramo dell’albero al capezzale della donna e che si posano sulle sue labbra senza scoppiare, evidenziandone l’addio alla vita; cfr, ivi, pagg. 150/151

[46] Strati, Saverio, Tibi e Tascia, Milano, A. Mondadori, 1959

[47] Tibi è diminutivo di Tiberto, Tascia di Natascia; già nel titolo inizia la penetrazione nel linguaggio infantile che resta il motivo linguisticamente più forte del libro.

[48] Se Saint Exupery, Antoine, Il Piccolo Principe, Milano, Bompiani, 1984

[49] Ivi, pagg. 116/117

[50] Ivi, pag.  118

[51] Ivi, pag. 98

[52] Ivi, pag. 118

[53] Ivi, pag. 125

[54] Sarebbe interessante studiare queste rappresentazioni di una infanzia sofferente connettendole con l’etica della sofferenza e del sacrificio in qualche modo alimentata in Giappone dalle nuove strategie produttive e dal mondo della scuola e della formazione; il toyotismo e la nuova articolazione del modo di produzione che si è sviluppato a partire dalle intuizioni dell’ingegnere Taiichi Ohno potrebbero ridefinire quest’etica della sofferenza in un’etica della gratificazione attraverso la partecipazione alla filosofia aziendale; resta da vedere quali potranno essere le ricadute di questi mutamenti produttivi nell’immaginario collettivo e nelle produzioni culturali e sottoculturali.

[55] Dati riportati da Pistolini, Stefano, Gli sprecati. I turbamenti della nuova gioventù, Milano, Feltrinelli, 1997, pag. 59

[56] Ivi, pag. 35

[57] Ivi, pag. 133

[58] Ivi,  pag. 64

[59] Ma presente anche in altre canzoni del cantautore; basti ricordare l’incipit di Compagni a venire o quello de Il tempo dell’illusione