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INCONTRI
INTERNAZIONALI
DI CASTIGLIONCELLO

diciassettesima edizione

il bambino selvaggio

alle relazionirelazioni e documenti



Angela Nava Mambretti
Presidente Nazionale CGD

«Il bambino selvaggio»

A me il compito di aprire la diciassettesima edizione degli Incontri di Castiglioncello: la ritualità non neutralizza l’emozione e non rituali sono i ringraziamenti al Comune di Rosignano e a tutto il suo personale che, a vario titolo, ha consentito che anche quest’anno fossimo qui, al Castello Pasquini. A tutti loro, amministratori e personale, un grazie che nasce da riflessione politica e non dall’osservanza delle regole di un galateo consolidato : credo che i nostri bambini, che si sono dipanati per più di un ventennio, possano essere ascritti tra le buone pratiche dell’autonomia, così frequentemente dichiarata, così poco praticata. Singolare sinergia tra un’associazione, che tenacemente vuole investigare sul presente per poter coniugare i tempi del futuro ed un ente locale che con lungimiranza investe sull’infanzia.
Né credo sia improprio parlare di emozioni o meglio di passioni oggi, quando alle abusate “passioni tristi” con cui abbiamo indicato fino a ieri una temperie culturale del nostro paese e non solo, forse dovremmo sostituire le passioni apatiche, felice ossimoro di Ilvo Diamanti.
Riecheggia infatti la definizione con cui  De Rita ha introdotto l’ultimo rapporto Censis  sulla situazione sociale del nostro paese, definito come “mucillagine”, prodotta da ”….la frantumazione progressiva di tutte le forme di coesione e appartenenza collettiva, … da una molecolarità ... che sta producendo coriandoli”, ma con i coriandoli, si sa, “…non si costruisce un tessuto sociale: così abbiamo, sul piano individuale, bolle di aspirazione senza scopo… e, sul piano sociale, deboli connessioni, smorte forme di aggregazione e inanimati simulacri dei processi di coesione che furono …. vincono le pulsioni frammentanti e non le passioni unificanti … i messaggi diventano monotoni e si restringe la pluralità dei codici comunicativi …. emergono nuove malattie dell’anima”. Condiviso o meno il pessimismo di queste parole, è pur vero che viviamo anni in cui è prevalente la sensazione di una continua inclinazione al peggio, la percezione di una diffusa insicurezza su cui, peraltro, si costruiscono, vittoriosamente, roboanti campagne elettorali.
Il futuro non è più per molti portatore di cambiamenti; forse esso è una promessa per gli studenti brillanti e diligenti, ma certo una minaccia per chi ha più difficoltà ad adeguarsi ai ritmi e ai tempi dell’istituzione – la scuola – deputata a farli crescere.
É così da tanto tempo, e fiumi di inchiostro, chilometri di pellicola, sono stati scritti e girati per descriverci le croci e le delizie della condizione giovanile.
Le cose si complicano quando il non più e non ancora dalla giovinezza sembra passare a tutte le età della vita, a diventare un modo di essere e di pensare la storia del mondo che viviamo.
Anche chi è “diventato” non è più sicuro di esserlo davvero, di esserlo stabilmente. Professioni che sembravano eterne scompaiono, o cambiano così rapidamente da rendere insufficienti o inutilizzabili le competenze precedentemente acquisite; altre nascono rapidamente e spesso, altrettanto rapidamente, si dissolvono.
Il futuro non è più pensabile come un presente più ricco e più avanzato; l’idea lineare di sviluppo come crescita non sembra più plausibile e proponibile, quando non desta qualche apprensione, e a volte qualche incubo. Ma un’idea di sviluppo sostenibile, che cambi la nozione stessa di ricchezza, per gli uomini e per le nazioni, che ne misuri la crescita in termini di benessere e non di prodotto di consumo, è ben lontana dall’affermarsi.
É entrato in crisi lo Stato nazione come regolatore fondamentale dell’economia e della società, ma siamo lontani dal trovare le regole di una economia e di una conoscenza globale. L’Europa, che è per noi condizione imprescindibile di crescita e di sicurezza nel mondo della globalizzazione, tarda a realizzarsi pienamente, non riesce “ancora” a scaldare i cuori e le menti.
E non hanno più presa, rispetto ai cambiamenti, le grandi narrazioni con cui l’umanità, fin quasi alla fine del secolo scorso, ha raccontato se stessa. A partire da quelle – il liberismo, il marxismo – che hanno spiegato le dinamiche sociali sulla base dell’interesse, dei singoli e delle classi, e hanno visto nel conflitto fra essi il motore della storia.
Acquista nuova centralità la persona, e le condizioni politiche e sociali che segnano i rischi e le opportunità, e l’umanità intera acquista il carattere di soggetto politico. Rischi e opportunità del mondo globale ci connettono in maniera fino a poco tempo fa impensabile a chi ci è distante, a chi ci è ignoto.
Lontani da ogni catastrofismo e  certi  come siamo che i cambiamenti in corso non possono ridursi solo all’allargamento del mercato o a nuove tecnologie o a nuovi modi di vivere la sessualità, crediamo che sia urgente capire a che punto ci troviamo e quale discorso sul mondo e su noi stessi potrà renderci questo mondo, e noi stessi, comprensibili.
Una riflessione “originaria” insomma; fondativa: è questo il motivo per cui  abbiamo accolto di buon grado il suggerimento del Centro Studi e Ricerche sulla comunicazione diretto dal professor Manetti  di partire da Victor, il bambino selvaggio dell’Aveyron, la cui educabilità interrogò ab imis la cultura del suo tempo. Sappiamo bene che la condizione  del bambino cui ci riferiamo è esattamente simmetrica e contraria a quella di Victor. Non è deprivato di socialità, è bombardato di socialità, massacrato di input sociali (la "solitudine tecnologica" è poco credibile). Il problema non è solo "come comunicano", ma "come costruiscono il sapere", o meglio "qual è" il loro sapere.. Se io non accetto che il bambino/ragazzo è, in questa società, portatore di una sua specifica e nuova conoscenza e di un suo specifico e nuovo patrimonio culturale, e se non cerco di capire questo mondo nuovo di sapere, non potrò mai comunicare con lui. Per parlare e "interagire" con qualcuno, io debbo in primo luogo riconoscere in lui un pensiero pensato che mi interessa conoscere. (L'errore che hanno fatto Fioroni e i suoi "esperti" nello scrivere le ultime "Indicazioni" è ancora quello di considerare il bambino/ragazzo solo come portatore di affetti, bisogni di relazione, sensazioni e capricci, invece che un essere "che sa".)
Ogni bambino che viene al mondo è un selvaggio, ci ricorda il prof. Mantegazza: portatore di un’innocenza ancora incontaminata o di una renitenza alle regole della socialità; come noi adulti o i nostri presupposti culturali vogliono vedere. Alla pedagogia  o meglio a certa  banalizzazione della pedagogia interrogarsi sulla sua attuale obesità. A noi, al nostro smarrimento di educatori assediati da una campagna di informazione che si anima di bulli e di baby gangs sempre più giovani e che non conoscono differenze di genere, a noi che siamo chiamati a guardarci impietosamente allo specchio da questi fenomeni poiché sentiamo insidiata la nostra stessa identità, molte domande di senso:
Quali sono le responsabilità di ciascuno dei tradizionali “attori educativi”? quale ruolo per la famiglia e per la scuola? Attraverso quali forme di collaborazione? E, soprattutto, qual è lo stato delle loro relazioni reciproche in ordine alla capacità di stabilire forme positive di collaborazione? Ci basta ricordare come fa Pennac nel suo ultimo e già citatissimo “Diario di scuola” che “É soprattutto a casa che gli uomini si uccidono, sotto il loro tetto, nella fermentazione segreta del loro focolare domestico, nel cuore della loro personale desolazione. Far passare la scuola per un luogo criminogeno è, in sé, un crimine insensato contro la scuola”? Pur riconoscendo la pericolosità e l’insensatezza di campagne mediatiche siffatte, non può bastarci. É questo il motivo profondo e non solo la solidità di un percorso antico che, pur nella differenza di ruoli ed interessi, ha sempre avuto un orizzonte e una visione della scuola pubblica comune, che abbiamo voluto che ci accompagnassero in questo convegno gli amici del CIDI. Insieme vogliamo interrogarci su quello che sembra essere uno scacco educativo inedito per profondità ed estensione. Con loro e con l’UDS, ma aperto a chi voglia aderire, abbiamo lanciato un patto per la scuola perché i decisori politici e quanti hanno a cuore questo paese, riscrivano un patto ideale con le giovani generazioni.
Ancora la scuola, quindi, perché da essa vogliamo ripartire insieme con un ragionamento complessivo sui nostri ragazzi, sui nuovi curricoli, su come la scuola può non contro, ma in modo egemone rispetto alle tante agenzie formative ritornare ad essere “seduttiva” per i nostri figli, sapendo che anche il termine dispersione è più complesso ed articolato di quanto anni fa intendevamo ed è oggi comprensivo anche della  noia o del non senso che molti ragazzi avvertono nella scuola stessa. Insomma vogliamo ragionare sul senso che ancora, ostinati democratici, attribuiamo alla scuola pubblica ed al suo mandato costituzionale. Vogliamo ragionare sul senso del pubblico e della scuola pubblica in questa società che definiamo complessa: quali valori e quale mandato ancora le affidiamo, se lo affidiamo, se le parole hanno un peso e non sono slogan. Cosa sappiamo dei nostri figli adolescenti, cosa pensiamo sia necessario trasmettere perché siano attrezzati e non solo flessibili come un certo mercato vuole. C’è dunque bisogno di una scuola che, in un clima sereno, torni a proporre e praticare “valori”; che davvero sia luogo di incontro tra generazioni.
Assai diffusa è la percezione che la scuola non costituisca più lo strumento decisivo di crescita e di promozione personale e sociale; che il sapere «razionale», «scientifico», «sistematico», «riflessivo» tradizionalmente impartito nella scuola sia poco rilevante o, addirittura, irrilevante; che i saperi che valgono nel mondo del lavoro e nella vita quotidiana, anche quando sono impartiti a scuola, vengono ormai autonomamente e prevalentemente prodotti in mondi esterni ed estranei all'istruzione pubblica.
Nel mondo della «cultura digitale»: quel complesso di tecnologie, di risorse, di atteggiamenti e di pratiche connessi con l'informatica e con la telematica. Nel mondo apparentemente semplice, divertente e vitale dei media televisivi: della pubblicità e dei nuovi consumi. Nel mondo della tecnica e degli specialisti strumentali: dei saperi dell'impresa, dell'economia, della finanza con un'infatuazione fideistica per la cultura dell'immagine, per il consumo passivo ed acritico dei nuovi saperi, per le abilità empiriche e sperimentali dei nuovi sapienti.
Il declino motivazionale nei confronti della scuola affonda le radici anche in questo diffuso immaginario, in questa ‘morbosa’ pretesa di semplificazione dei processi cognitivi.
Un declino motivazionale che investe, in primo luogo, le nuove generazioni, ma che non risparmia gli insegnanti e le famiglie. I primi socialmente delegittimati, in quanto il loro originario patrimonio di conoscenze “razionali” “scientifiche”, “sistematiche” è rappresentato come vecchio, noioso e, soprattutto, separato e non funzionale.
Le seconde sempre più smarrite e sempre più caricate della responsabilità che i propri figli acquisiscano gli unici saperi considerati necessari: quelli esterni ed estranei alla scuola, quelli che il senso comune dominante prescrive come gli unici veramente utili a districarsi nella vita quotidiana e nella vita lavorativa. Il declino qualitativo e il declino motivazionale rinviano anche ad una più generale crisi della funzione educativa e formativa dell'istruzione pubblica. Per tutta l'epoca moderna e sino alla metà degli anni settanta dello scorso secolo le cose erano andate ben diversamente.
Agli intellettuali ed alle istituzioni educative, ai diversi livelli, era stata, invero, affidata la «missione» storica di «creare» prima e «mantenere» poi culturalmente coese comunità e popolazioni assai diverse tra loro e inizialmente unificate solo dalla geografia politica dello “Stato territoriale”.
Non è più così e non solo nella nostra percezione. I consumi culturali e mediali costituiscono negli anni 90 una tra le forme di socializzazione più dirette ed efficaci dell’universo giovanile. Oggi assistiamo, infatti, ad una sorta di policentrismo educativo nel senso che il primato della socializzazione non è più esclusivo appannaggio delle strutture familiari e scolastiche, ma è ripartito all’interno dei rapporti con i coetanei, il gruppo dei pari, ed i mezzi di comunicazione di massa che auspicano e giustificano un approccio di tipo “orizzontale” ed immediato nella costruzione della realtà giovanile. Non si può parlare di socializzazione immediata senza fare riferimento alle nuove modalità di consumo del tempo libero da parte delle nuove generazioni. Adolescenti e giovani possono essere dunque investigati secondo una duplice tipologia comportamentale: da un lato, come pedine strategiche nel gioco degli stili di consumo familiare e sociale; dall’altro, nel rivoluzionario trend della capacità di scelta che accomuna sempre di più gli under-18 alle generazioni più adulte.
Alla relazione educativa, oggi in affanno si affacciano nuove domande e nuove responsabilità. Quali valori trasmettere e come alle nuove generazioni? Quali e quanti saperi saranno indispensabili e non frutto di mode temporanee? Tempi dell'educazione distesi o tempi che sembrano rispondere all'accelerazione imposta della modernità? Come difendere, o è giusto difendere, i nostri bambini dall'invadenza dei media? Come raccogliere le nuove sfide della multiculturalità che oggi affronta il nodo dell'integrazione delle seconde generazioni, elemento di trasformazione per le società riceventi. Come suscitare “passioni” (deboli o forti che siano); di mostrare che vale la pena impegnarsi a realizzare qualcosa con se stessi? Quanto riusciamo a comunicare, nel senso di mettere in comune storie, narrazioni, vissuti? Quanto risulta attraente per i nostri figli la nostra proposta culturale, il mondo che gli prospettiamo di abitare? In che misura, cioè, riusciamo a rendere seducenti noi stessi e i contenuti del nostro progetto educativo?
Senza dimenticare, come spesso si tende a fare instaurando una relazione amicale che evita qualsiasi modalità di valutazione, che ogni relazione educativa è di per sé asimmetrica e in essa l’adulto ha un inevitabile ruolo di potere. Prendere decisioni è un compito arduo, può mettere in crisi la persona che deve farlo, ma il ruolo dell'insegnante del genitore, comprende anche questa responsabilità, che va sostenuta con coraggio e, ovviamente, anche sottoponendosi a critica. Ma quanti insegnanti hanno paura di esercitare con piena responsabilità la propria autorevolezza? La crisi del ruolo e della figura sociale dell'insegnante è anche, in misura significativa, crisi della persona stessa posta di fronte alla responsabilità istituzionale e alla competenza pedagogica e didattica che questo ruolo comporta. Da qui, da Castiglioncello vogliamo lanciare un appello a chi sarà chiamato a governare la scuola: le ragioni della scuola non possono essere quelle di una parte. Non può  e non deve essere colonizzata ogni volta dai governanti di turno in una furia iconoclasta che vuole ricominciare da un rivoluzionario anno zero. Al centro c'è l'educazione dei giovani quindi, fuori da ogni retorica, il futuro di questo paese che ha bisogno di investimenti, di innalzare, già dalla prossima finanziaria, l'incidenza di spesa per l'istruzione pena la vacuità di qualsiasi dichiarazione programmatica.
E' necessario pertanto uno sforzo straordinario per rendere la scuola più inclusiva e più efficace  lavorando sulla formazione degli insegnanti, sui nuovi curricoli che guardino all’organizzazione del sapere per una cittadinanza del mondo, tra saperi locali e saperi globali in un’integrazione dei saperi in nuovi quadri interdisciplinari, che vada oltre gli specialismi e il valore accordato alla mera informazione, sulla riforma improcrastinabile degli organi di governo della scuola. In un ottica laica che rivendichiamo come capacità di parlare e di far parlare le molte culture di questo paese.
Ho ricevuto tempo fa una lettera da una coppia di genitori che tra l’altro afferma: ”…..abbiamo anche noi la nostra cerchia di amici, molti sono single, altri in coppia con problematiche analoghe alle nostre e con ricerca di soluzioni educative di tipo empirico ed in ogni caso molto private. Notiamo in giro un ammaina bandiera che provoca danni, un essere conformisti rispetto a quello che è l’andazzo generale, soprattutto a quello che sta diventando un totem collettivo: il consumismo. Vorremmo ribellarci a questo stato di cose, uscire dal guscio privato, confrontarci con altre persone, non rinunciare al nostro ruolo educativo, insomma esserci storicamente come cittadini e come genitori aperti al mondo”.
É questo il senso del nostro bambino e del nostro essere qui oggi. Buon lavoro a tutti.