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Intervento agli Stati Generali dell'Istruzione
Roma 19 dicembre 2001

 

La scuola che vogliamo

Sappiamo che il mondo è cambiato, ci dicono che dopo l'11 settembre nulla sarà come prima, sappiamo che la scuola versa in un cronico malessere e spesso siamo stati attraversati anche noi dal desiderio di gettare la spugna: proteggendo i nostri figli chiudendoli in nicchie con i vetri spessi perché il mondo arrivasse attutito e disneyanamente edulcorato, perché la crescita avvenisse lentamente e senza scossoni.

Non è questo il nostro compito.

Non c'è scuola che possa essere un luogo senza tempo, che dimentichi la complessità della realtà, i suoi segni, i suoi simboli, o che voglia cancellarla con un atto di suprema volizione.

Sappiamo che oggi la scuola non è l'unica agenzia di formazione, sappiamo che l'extrascuola condiziona e definisce anche i percorsi scolastici, ma sappiamo anche che essa è il luogo privilegiato della formazione perché l'unico che riconduca ad unità e sistema quello che nel mondo si disperde in mille rivoli. Il luogo, l'unico della cittadinanza come condivisione di valori, come progetto che attraversa i saperi.

La scuola pubblica con un surplus di valore: il genitore che affida ad essa il proprio figlio rinuncia implicitamente ad una sorta di individualismo proprietario; accetta invece il terreno della contaminazione.

Sa che i titolari della libertà garantita dallo stato laico non sono le famiglie, ma i figli, che hanno essi sì, il diritto ad avere il massimo delle opportunità formative, di critica e di confronto.

La scuola per essere quella di tutti i bambini e tutte le bambine, di tutte le ragazze e di tutti i ragazzi, di tutti gli insegnanti è necessariamente il luogo della contaminazione, del confronto, della crescita per differenze, anzi attraverso le differenze.

Se pertanto è vero che "In una società della conoscenza, nella quale ogni organizzazione è e si fa comunicazione e intelligenza distribuita la centratura scolasticistica non è più accreditabile" (Bertagna), siamo altrettanto sicuri che l'unica strada sia quella dell'addestramento professionale a quattordici anni o quello di una scuola che certifica competenze che alcuni, i più fortunati, quelli con genitori formati ed informati ed in grado loro sì di scegliere, ma non tutti, acquisiranno all'esterno?

Alla sfida della società complessa non possiamo rispondere con meno scuola, ma con più scuola per tutti, chiedendo che le trecento ore siano sì opzionali, ma all'interno della scuola, terreno privilegiato di raccordo e di sapiente e flessibile regia, non di certificazione impiegatizia di competenze conquistate altrove.

Abbiamo imparato che la scuola è valore in sé, che il tempo trascorso dentro di essa ha un peso che non si può misurare solo nel numero di contenuti appresi o di competenze acquisite, che il bilancio tra dare ed avere qui non regge, che il tempo "perso" ha un valore aggiunto che sfugge ad un calcolo squisitamente numerico ed aziendale: nella scuola le perdite si misurano altrimenti, sono tutti i ragazzi che perdiamo alla voglia di sapere, che lasciamo andare nel mondo incapaci di leggere i contesti in cui si muoveranno.

Profitti e perdite si misurano in tempi lunghi e non in bilanci annuali.

Apprendimento ed insegnamento non vivono di equazioni orarie: lo sanno gli insegnanti, ma lo sanno da tempo i genitori che la scuola pubblica frequentano e vedono le sue ombre, ma anche le sue tante luci; che leggono una perdita nell'offerta di solo 25 ore settimanali garantite a tutti, i genitori che continuano ostinatamente a chiedere in tanta parte d'Italia per i più piccoli il tempo pieno come risorsa di valore e non come parcheggio che si può trovare anche in altre agenzie, che non vogliono più il maestro unico come sostituto del genitore rimasto fuori dalla porta della scuola, perché hanno capito che più figure di riferimento sono più opportunità per i bambini.

Hanno da tempo (almeno con la istituzione della scuola media unica) compreso che non ci sono discipline (o insegnamenti ed insegnanti) essenziali, ma che tutte le educazioni concorrono ad orientare e ad orientarsi, a "coniugare testa e cuore", "cuore e mani" (Bertagna, sic!) come tanta ormai vecchia pedagogia ci ha insegnato: ascoltano con rispetto e non con piaggeria il parere degli insegnanti delle tante educazioni, che nella scuola e non in un'agenzia esterna, concorrono per sentieri diversi a riportare ad unità la complessità della formazione.

Sanno i genitori che la scuola ha bisogno di continuità e di tempi distesi, che deve recuperare la lentezza, il zigzagare del tempo dell'apprendimento dei ragazzi che non è sempre e solo unilineare ed apprezzano un ciclo lungo ed una valutazione biennale: ma come e chi garantirà il passaggio dalle elementari alle medie, dalla scuola degli ambiti a quella più ambiziosa delle discipline: l'insegnante coordinatore? Come interagiranno i docenti dell'uno e dell'altro livello? Su quali contenuti, con quali strumenti formativi?

Ed ancora sui tempi della scuola: se è bene non parlare più di obblighi, ma di diritti, perché meno diritti e cioè meno anni di scuola?

Riconosciamo pure il diritto a tutti di essere nel circuito scolastico fino ai 15 anni come recita una legge dello stato, per operare solo dopo le proprie scelte. Diamo a tutti delle opportunità in più nella diversità dei percorsi, estendiamo davvero a 18 anni ogni forma di opportunità, senza sedurre con falsi premi di bonus validi solo per chi intraprende la strada della formazione professionale o dell'addestramento professionale gestito dalle regioni e non dallo stato.

I genitori sanno inoltre che "etica e logica" devono essere ricondotte ad unità, che profitto e comportamento vanno di pari passo, se la maggioranza degli adulti (docenti e genitori appunto) vogliono una valutazione del comportamento (soprattutto di quello degli altri, di quelli che appesantiscono, che rallentano, che corrodono l'efficienza), vogliono in una parola il voto di condotta.. Non contrari in linea di principio, ci chiediamo:a quale scopo? Come strada maestra per responsabilizzare lo studente, la famiglia, gli insegnanti? O strada maestra per stigmatizzare come cattiva condotta disagi, ritardi, demotivazioni, per liberarsi di chi non è sufficientemente flessibile (o malleabile?) .

La religione cattolica resta come opportunità, curricolare ed obbligatoria, nelle 25 ore offerte a tutti: senz'altro l'educazione religiosa è parte non secondaria della formazione di un individuo: tuttavia ci chiediamo cosa offre questa scuola ai milioni di italiani cristiani non cattolici, ebrei, musulmani, buddisti, o figli di famiglie non credenti? E la loro libertà di scelta?

Ci piace l'idea di una scuola che ripristini un rapporto di cooperazione e di negoziazione con i genitori: ma il ruolo è più complesso di quello che si prefigura concedendo loro solo la scelta dei percorsi opzionali. Si negozia se si sa e si è dentro rapporti paritari: le proposte sugli OO.CC. prefigurano un ruolo rilevante ai genitori come petizione di principio, mentre il consiglio d'amministrazione previsto li esautora dal governo della scuola e chiama esperti dall'esterno per valutare la qualità della scuola ed i suoi processi interni.

Sappiamo con certezza che di genitori favorevoli a una scuola aperta all'Europa e al mondo in nome di un autentico federalismo e non di appartenenze separate od autarchiche ce ne sono molti.

Nonostante l'assordante silenzio che sembra avvolgere la società civile, l'attenzione critica delle famiglie per una scuola pluralista, pubblica e democratica è ben viva: l'interesse generale non è uno strumento giacobino volto a colpire qui ed altrove le classi dirigenti; è esigenza concreta e non ideologica, così come è concreta la convinzione che un arricchimento culturale diffuso e non una rassicurante omologazione dell'ignoranza sia un'arma in più per la società tutta.

Sono molti i genitori che sfuggono ai sondaggi e alle luci dei media: saranno antagonisti rigorosi e severi, Ministro, se delusi nelle loro legittime aspettative.

COORDINAMENTO GENITORI DEMOCRATICI



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