INCONTRI
INTERNAZIONALI DI CASTIGLIONCELLO sedicesima edizione
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Nuovi contesti familiari e complessità: il mito e la paura dell'infanzia La storia della famiglia, nell'arco del ventesimo secolo, è storia di trasformazione più generale del modo di vivere, di pensare, di consumare. E' storia di cambiamenti profondi a livello di bisogni e desideri dei singoli e dei gruppi sociali, del modo di costruire questi desideri stessi e delle possibilità di rispondervi. E' storia anche di cambiamento di tutto quello che nel corso del tempo si è collocato nell'ambito dei "doveri", di ciò che la società pretende da ciascun individuo e da ciascun gruppo sociale. Sono cambiate, insomma, sia le aspettative del singolo rispetto alla collettività, sia quelle della collettività rispetto al singolo. E' sotto gli occhi di tutti la tendenza a enfatizzare la crisi della famiglia, interpretandola non come segno anche di positiva trasformazione, come necessità di riconoscere l'inadeguatezza delle rappresentazioni prevalenti e di cercarne di nuove, ma come declino di ogni possibile forma di microaggregazione legata a reti di solidarietà reciproca. La crisi dei ruoli tradizionali e il bisogno di maggiore libertà e autonomia all'interno del contesto familiare vengono così letti solo in termini di caduta di certezze e di appigli affettivi. In realtà, la rottura di vecchi equilibri, di arcaiche forme di complicità, spesso cristallizzate e inamovibili, rende anche possibile il generarsi graduale di nuove forme di solidarietà legate a modi diversi di interagire tra i sessi e tra le generazioni. Si tratta di fenomeni che, forse, possono finalmente rompere la dimensione privatistica della famiglia come luogo chiuso nel quale nascondere, non di rado protetti da reciproche catene di omertà, i propri lati oscuri e indicibili, per lasciare il posto alla ricerca di una relazionalità più autentica, nella quale trovino diritto di esistenza la debolezza, la fragilità, la vulnerabilità di ciascuno, insieme alla voglia e al desiderio di poter autonomamente decidere di sé. La crisi delle tradizionali forme di aggregazione familiare si trasforma, invece, in timore esasperato e spesso irragionevole per i membri più deboli di tali microcosmi stessi. Assistiamo, infatti, a una trasformazione epocale dei contesti familiari e delle rappresentazioni che li concernono, mentre parallelamente emergono nuove forme di iperprotezione del bambino. Si tratta di forme originate reattivamente rispetto al suo irrompere sulla scena come elemento portatore di inquietudine; forme che mentre sembrano preservarlo da pericoli innominabili si pongono invece come espressione di rancorose paure. Crediamo di custodire i bambini mentre proteggiamo solo noi stessi e le nostre certezze di adulti dall'impatto dirompente con il disordine del quale essi si fanno involontariamente espressione. Il contatto con i bambini, infatti, risveglia in noi adulti i ricordi sopiti della nostra passata condizione infantile e la riattiva, rendendola di nuovo viva e palpitante nella dimensione interna. Tale riattivazione, pericolosa perché può riaprire antiche ferite e renderle attuali, determina anche, non di rado, il bisogno incontenibile di proteggere e difendere noi stessi, stabilendo di nuovo una distanza psichica e relazionale, nei termini della forza e della debolezza, rispetto ai bambini. Ce li rappresentiamo, allora, come più fragili di quanto non siano, come incapaci di tollerare anche le minime inevitabili frustrazioni legate alla socialità e di albergare al proprio interno sentimenti come la tristezza o la pena. Finiamo così per cedere alla tentazione di proteggerli oltre il dovuto, per un malinteso senso di amore nei loro confronti, censurando loro gli aspetti della condizione umana più difficili da accettare; per esempio escludendoli anche fisicamente dai luoghi del dolore, come gli ospedali o i cimiteri; o, ancora, impedendo loro di prendere contatto con i propri desideri e con i vuoti dai quali originano, esaudendo tale desideri stessi prima ancora che divengano consapevoli; e anche, così, sostituendo oggetti e beni materiali, spesso lo stesso cibo, alle parole e agli affetti che davvero sono capaci di scaldare e di farci sentire compresi nella dimensione interna di un altro significativo. I bambini sono cambiati perché è diverso il loro modo di sentire e di pensare se stessi nel mondo e con gli altri. Le loro paure sono di tipo prevalentemente abbandonico, ma più nel senso metaforico che in quello realistico e materiale. Non è l'abbandono fisico che essi paventano: anzi, non esiste forse quasi più un giardino segreto di giochi e complicità amicali non definito o controllato dalla figura adulta; ma è l'abbandono “orientativo”, legato al sentirsi smarriti nel mondo se privi della costante protezione dell'adulto. E' l'abbandono che è dato dal non sentirsi presenti nella mente (nella dimensione di interiorità) dell'altro; l'abbandono originato dal non poter più usare la parola, ma gli oggetti materiali (i beni di conforto, il cibo, i giocattoli, i dispositivi della tecnica...) come mediatori comunicativi, come depositari e testimoni dell'affetto dell'adulto, e, quindi, il proprio stesso corpo per esprimere disagio o inadeguatezza. E' forse necessario, dunque, ripensare anche le vicende più recenti di trasformazione dalla famiglia come un percorso, almeno in parte, di progressiva esaltazione degli aspetti di legame affettivo autentico, fondato sulla scelta dello stare insieme in maniera solidale piuttosto che su aspetti istituzionali. In epoche precedenti la legittimità della famiglia (quindi la sua stabilità, la sua saldezza, la sua durata) era affidata prevalentemente e talvolta esclusivamente a una rete normativa che ne definiva le funzioni sociali. Oggi, invece, la saldezza, la durata, l'intensità dei legami familiari, sono maggiormente ancorate ad aspetti di soddisfazione personale quali l'emotività, l'affettività, la qualità della propria realizzazione al suo interno, il grado di solidarietà progettuale anziché quello di complicità omertosa e difensiva. Per questo, il terreno comune che ora si può costruire tra i membri di una stessa aggregazione a carattere familiare, non può più essere la ricerca di una visione del mondo univoca e rigidamente condivisa, strutturata dagli stessi valori, idee politiche o, più in generale, dalle stesse visioni del mondo. Per la prima volta è possibile, invece, scorgere, al di là degli evidenti e più ostentati possibili disagi derivanti dalla disgregazione dei vecchi modelli familiari, i germi di nuove forme di solidarietà non concepibili precedentemente. Non più linee di demarcazione delimitate una volta per tutte tra ciò che è familiare e ciò che è non-famiglia; non più destini prestabiliti prima ancora della nascita; ma disponibilità a ridefinire continuamente i confini del gruppo e i destini di ciascuno al suo interno, in base alla capacità di strutturare una solidarietà non condizionata. Maria Antonella Galanti |