INCONTRI
INTERNAZIONALI
DI CASTIGLIONCELLO
sedicesima edizione
relazioni
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Un’educazione accogliente per incontrare il bambino reale
Cesare Moreno
Premetto che sono particolarmente felice di poter intervenire a questo incontro perché il tema della genitorialità o meglio della cura parentale, che può essere esercitata da figure diverse, è un tema centrale per il lavoro che svolgo. Ho avuto modo di rinnovare un paio di anni fa i contatti con Angela Nava proprio in occasione di un incontro promosso dal MIUR in cui si parlava di ruolo dei genitori nella fase dell’orientamento e proprio in quella occasione, con meraviglia di quelle associazioni genitori che ritengono che i docenti debbano porsi contro la famiglia, sostenni che non solo la famiglia non andava esclusa, ma che doveva essere pienamente protagonista, perché attraverso i figli si realizza “il romanzo familiare” e che se non si rispetta la famiglia si finisce per lasciare l’orientamento in balia delle coercizioni sociali.
Ricordo pure che sono stato già presente – virtualmente – a Castiglioncello attraverso un documentario presentato per il “bambino bruciato” del 1991; un documentario grazie al quale oggi posso disporre di una documentazione filmata sui drop out della scuola che va dalla culla all’adolescenza.
Infine, ed è questo il principale motivo della mia soddisfazione voglio ricordare che nel Progetto Chance – Maestri di strada, al cui coordinamento collaboro, riteniamo tanto importante il ruolo attivo dei genitori nel costruire un progetto educativo che abbiamo creato la figura del “genitore sociale” che rappresenta la dimensione della cura dentro il progetto e che gestisce spazi di accoglienza e mediazione con modalità che ricordano la cura personale e singolare, piuttosto che la configurazione scolastica tendenzialmente anonima e spersonalizzante.
Fatte queste premesse e poiché il tempo è ridotto, riassumo il mio intervento in punti schematici.
Noi consideriamo il Progetto Chance un progetto politico nel senso che esso si pone come un modo di costruire la città con le nuove generazioni.
La città educa e viene educata, la città che ha smarrito il proprio senso è tale perché ha smarrito il senso della missione di cui è portatrice di fronte all’infanzia e alla gioventù; la città deve riuscire ad unirsi e ritrovare il senso civico obbligandosi innanzi tutto di fronte ai giovani. Sono i giovani ad essere la sorgente del civismo e della comunità come sistema di reciproche obbligazioni. Noi pensiamo alla socialità quale espressione della umana solidarietà nell’allevamento dei giovani e nella continuità della specie, piuttosto che come formazione dettata da necessità di difesa o produttive. Il bambino ed i giovani reali si incontrano se ripartiamo dalla dimensione sociale della cura.
La città è anche metafora della complessità del compito educativo che secondo il nostro punto di vista è intreccio di sviluppo cognitivo, di evoluzione del progetto personale, di interazione con le culture del fare, di relazioni di cura. Tocca a noi che operiamo in situazioni difficili e destrutturate riscoprire il senso della complessità del lavoro educativo in quanto dobbiamo ricostruire intorno ai giovani che crescono un sistema di relazioni senza del quale non esiste motivazione ad apprendere. Così noi non possiamo praticare una didattica lineare, o una programmazione monocorde ma percorriamo insieme ai nostri giovani sentieri intricati tra sentimenti, emozioni, relazioni, conoscenze.
Il processo educativo nasce dalla cooperazione di quattro diverse figure e di altrettanti ambienti di apprendimento, che sono il docente, l’educatore, il formatore, il parente. Queste figure ideali sono rappresentate da diverse professioni ma rappresentano anche linee di forza che si intersecano in ciascuna attività
Una simile complessità può essere efficace solo se si organizza in forma di comunità. Con questo intendiamo una organizzazione dell’attività educativa che sia accogliente, contenente, vincolante. Comunità significa che nelle relazioni con gli allievi e con tutti gli attori della relazione educativa ci fondiamo sulla reciprocità, che è lo strumento di costruzione dei vincoli, delle obbligazioni reciproche.(cum-munus, comunità significa appunto obbligazioni condivise) Nel nostro lavoro i patti ed i contratti sono centrali e grande cura viene messa nella loro preparazione e nella loro sottoscrizione.
La complessità spaventa se pensiamo in maniera lineare e gerarchica. Il governo della complessità può avvenire solo attraverso la democrazia partecipata, ossia con una forma di democrazia più avanzata e radicata nelle relazioni umane che non la democrazia rappresentativa.
La democrazia partecipata che mette in comunicazione i sentimenti di identità ed appartenenza, con i problemi del quotidiano, con la costruzione dei legami sociali con la gestione del potere è lo strumento di gestione della complessità educativa.
Poiché il nostro tema sono mappe e bussole, dirò, seguendo un ragionamento di Walter Benjamin, che nella città è importante perdersi. E importante uscire fuori dai gusci protetti per diventare cittadini pieni. Mi esprimerò metaforicamente per essere sintetico: uno dei punti di discrimine tra i nostri giovani drop out e i giovani che vanno a scuola è la capacità di usare i mezzi pubblici: i nostri giovani ne hanno paura, non si fidano. L’autobus è una metafora del trasporto anonimo, della ‘traduzione’ in altri ambienti e rappresenta sul piano dei comportamenti urbani la difficoltà cognitiva ad esplorare ambienti nuovi, ad usare mezzi estranei alla propria cultura materiale, la paura di affidarsi ad un pilota ignoto e a compagni sconosciuti (viceversa avrete osservato che quegli stessi mezzi pubblici possono essere usati ed abusati quando si riesca a penetrarvi in branco e ad impadronirsene in modo brutale, ed anche questo è il risultato di paura ed estraneità).
Per noi quindi non è possibile affidarsi né alle mappe né alle bussole, perché manca la fiducia in esse. Dobbiamo invece costruire quelle relazioni di fiducia tra le perone da cui nasce la possibilità di fidarsi di ciò di cui altri si fidano.
Nel nostro lavoro costruire un gruppo, sia tra i professionisti che lavorano in territori della mente e della città difficili e complessi, sia tra i giovani che si affidano a noi, è il contenuto del lavoro educativo e non solo un mezzo. Noi costruiamo capacità di affidarsi al gruppo perché dimostriamo ogni giorno che il gruppo ha in sé le risorse per trovare la strada: trovare la strada del proprio progetto per i giovani, trovare la strada della missione educatrice per i tanti professionisti che interagiscono con loro.
In questo modo noi costruiamo una nuova gruppalità che non umilia e mortifica l’individuo, un nuovo individuo più forte perché sa attingere alle risorse del gruppo.
Definiamo quindi una nuova ‘familiarità’ in cui i confini tra appartenenza alla parentela della cura (quella parentela di sangue che gli antichi chiamavano fratrìa), e il civismo, l’appartenenza alle comunità locali (il “demos” che è nella radice di democrazia) sia più permeabile. In cui le relazioni parentali non siano chiuse tra quattro asfittiche mura, ma siano il punto di partenza di una rete complessa di arricchenti legami.
Di fronte alla complessità della città e del compito educativo, troppi si aggrappano a certezze semplificate, a nostalgie di antiche mappe, al ricordo di punti di riferimento ormai resi irriconoscibili dal tempo.
La città vissuta e la città globale che vive nelle reti comunicative sono inafferrabili, sono luoghi di deposito di frammenti significanti di cui ignoriamo l’origine ed il percorso. Non possiamo ritrovare i fili infiniti di questi frammenti, ma possiamo riuscire a ricreare significati per noi, qui ed ora per il nostro essere. Dobbiamo ritrovare i nostri fili e non quelli della intricata realtà. In questo modo si costruisce una nuova polis fatta dei legami piuttosto che reificata nelle cose, edifici, strade, servizi. L’educazione in questo modo produce energie di legame ed è un investimento piuttosto che un consumo non perché produce per l’economia ma perché produce il sociale. Una nuova politica deve partire da qui, da una rinnovata tensione alla costruzione della polis, in cui il disagio e la complessità sono risorsa per costruire legami e quindi una socialità che accoglie e sostiene l’individuo piuttosto che aggredirlo con una straripante complessità.
Poiché mi viene chiesto quale sia stata l’emozione più forte nell’affrontare questo lavoro, colgo l’occasione per ricordare che tutto quello che ho detto deriva dal lavoro di un gruppo di trenta docenti ed altrettanti educatori. Il sentimento più diffuso nel momento in cui abbiamo cominciato è stato quello dello smarrimento più completo, della perdita di identità. In capo a pochi giorni non sapevamo più se eravamo docenti, psicologi, assistenti sociali, professionisti appassionati o pazzi dilettanti. Lentamente ci siamo ripresi, stiamo definendo una nuova professionalità insieme ai nostri allievi e oggi sappiamo che per poter incontrare loro era necessario per noi perderci. |