INCONTRI
INTERNAZIONALI DI CASTIGLIONCELLO sedicesima edizione
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Il Bambino Ir-reale Il primo bambino era del 1984 e forse non era neanche percepito, allora, come il primo di una lunga serie, una sorta di capostipite. Ma proprio dall'esperienza del primo incontro scaturì la necessità di aprire spazi di riflessione e di confronto a tutto campo. Fu l'incontro inevitabile fra il “mondo degli esperti” e il “mondo della quotidianità”, di chi sensibile ai problemi connessi alla crescita e alla formazione che riguardano non esclusivamente il proprio figlio, continua a cercare soluzioni che non si esauriscano nella sfera del privato. La cultura che diviene o torna ad essere strumento per affrontare i problemi reali, per analizzare il presente allo scopo di modificarne le storture. Un percorso insomma che cerca di cogliere un bisogno inevaso di “saperne di più” che la società civile nelle sue espressioni ancora attive continua a fare. Un bambino che ha più di vent'anni, quindi, e può guardare senza compiacimenti celebrativi alla sua storia che si è intrecciata, possiamo dirlo, strettamente alle profonde trasformazioni di questo paese negli ultimi due decenni. Questo convegno è anche la riconferma della validità della sinergia tra il lavoro di un Ente Locale lungimirante (vent'anni fa addirittura era un impegno profetico) che faceva della riflessione sulle nuove generazioni la carne del suo agire politico e quello di un'associazione di genitori. Tradizione che si è strutturata nel tessuto di questo paese e non celebra oggi un rito fine a se stesso. Ma perché proprio il bambino ir-reale come tema del XVI Incontro di Castiglioncello? Da anni noi pediniamo con passione i problemi, i bisogni, le emozioni che attraversano il mondo dei genitori e degli educatori in genere ed oggi siamo sempre più consapevoli di essere di fronte ad un'emergenza educativa dai confini inediti. Senza accedere a visioni apocalittiche cui pure molti dei fenomeni che abbiamo dinanzi ci farebbero inclinare, non possiamo non interrogarci ed essere coinvolti dagli argomenti a sostegno dell'ideologia della crisi. Tutta la cultura occidentale moderna si è fondata, su una credenza fondamentale: il futuro era promesso come una specie di redenzione laica, di messianismo agnostico. Ma questa promessa non è stata mantenuta. Aumenta infatti, in modo pervasivo e capillare, l'inquietudine rispetto al futuro che ingenera paura: mentre si profila una condizione di maggior durata della vita media, si definisce l'impossibilità di definire un futuro non solo tranquillo, ma governabile. Muta la gestione dei conflitti politici, muta anche lo scenario del conflitto bellico dove sono nuove anche le forme del “guerriero”. O meglio si intravvedono metamorfosi del combattente ® cecchino, terrorista, attentatore suicida mentre cambia anche lo statuto della vittima: trasformare il proprio corpo in una bomba significa annullare l'altro in un atto simbolico; né interlocutore né ostaggio, ma niente . “In tutte le epoche il futuro è stato incerto, ma la sua capricciosità e volatilità non è mai stata avvertita con tanta intensità come oggi, nel mondo di modernità liquida del lavoro flessibile, dei legami umani fragili, degli stati d'animo fluidi, delle minacce aleggianti e dei pericoli invisibili” (Bauman). Né ci consola pensare che fin da principio lo Stato moderno si trovò ad affrontare il compito scoraggiante di amministrare la paura non per eliminarla, ma per istituzionalizzarla. Dunque la paura cristallizza l'individuo in un presente astorico. La cultura del presente sembra quella che domina la nostra modernità senza racchiudere in sé una capacità di riflettere sul passato e\o di progettare il futuro. “Futuro? Il mio futuro è stasera” rispondeva John Travolta, già negli anni '70, nel film La febbre del sabato sera. Ora nella nostra società come in tutte le altre, l'educazione, la trasmissione dei valori e dei principi che assicurano la continuità di una cultura si basano sulla riproduzione e sulla trasmissione dei suoi valori fondanti. Come è possibile pertanto educare, trasmettere e integrare i giovani in una cultura che spesso sembra aver perso i propri fondamenti, che ha trasformato il futuro-promessa nel futuro-minaccia ? Sembra che, oggi, per i giovani l'insidia del futuro si sia sostituita all'invito ad entrare nella società, a condividere, a conoscere e ad appropriarsi dei beni della cultura. Sembra questo, il tempo delle passioni tristi . I fuochi delle banlieues si sono forse spenti, ma non certo le riflessioni su quel tragico avvenimento sociale che ha tutte le caratteristiche della complessità perché mette in relazione una serie di politiche: quelle dell'immigrazione, quelle abitative, del lavoro, le politiche sociali. Ed è interessante il fatto che l'attenzione del governo francese, ancorché di destra, si sia concentrata sulla scuola, come luogo centrale in cui tutti i problemi si incrociano. Perché è nella scuola che si incrociano le generazioni, le culture, le disuguaglianze sociali. Ed è altrettanto interessante, come ha scritto l'amico Missaglia,” l'idea di un “contratto di responsabilità parentale” che il Primo Ministro francese si appresta a varare per tentare di rispondere a un fenomeno che in quei giorni è apparso eclatante. Il fenomeno sta nella crescente caduta di responsabilità degli adulti nei confronti dei figli. Il contratto di cui si discute vincola l'adulto a “seguire” il proprio figlio. Ed è un vero contratto siglato con un funzionario del Comune e il capo di istituto della scuola frequentata. Se il contratto verrà rispettato, i genitori usufruiranno di un assegno economico di sostegno. Se il contratto non verrà rispettato, quell'assegno sarà revocato fino al ripristino di un corretto rapporto”. Misura che mette in discussione il “primato” educativo della famiglia su cui la passata legislatura ed il dicastero della Moratti hanno costruito la loro fortuna. In realtà se la famiglia non è aiutata da politiche coerenti, se lo Stato, le comunità locali, la scuola pubblica, non diventano essi stessi risorse per contrastare l'isolamento sociale in cui le famiglie di oggi sono confinate, le famiglie diventano a loro volta produttrici di esclusione e malessere, confermando i dato di una ricerca Eurispes in cui si descrive una generazione adulta scomparsa, invisibile, incapace di svolgere una funzione educativa. C'è dunque bisogno di una scuola che torni a proporre e praticare “valori”; che davvero sia luogo di incontro tra generazioni in cui gli adulti assumano la responsabilità di una emergenza educativa testimoniata dai quotidiani fatti di cronaca. Una sorta di sfiducia educativa attraversa, infatti, gli insegnanti, gli operatori per eccellenza di quello snodo fondamentale nella vita dei bambini e degli adolescenti che la scuola rappresenta. Essi percepiscono dalla loro postazione professionale un significativo e profondo mutamento rispetto agli anni precedenti. Le nuove generazioni, quelle della tv e del computer, appaiono più fragili sul piano cognitivo; fanno più fatica ad apprendere e manifestano, per dirla con la lingua della scuola, profonde “carenze di base”. Esprimono, inoltre, un'insofferenza diffusa a rispettare le più semplici regole della convivenza scolastica. Sempre più spesso, infatti, vediamo genitori in “affanno” anche per bambini molto piccoli, che vengono descritti come tirannici o indomabili. In realtà la difficoltà dei genitori ad assumere una posizione di autorità rassicurante, ma “contenitiva”, lascia il bambino solo di fronte all'ansia ed il rapporto tra genitori e figli diventa un rapporto teso, si trasforma in uno psicodramma. Se all'ansia del presente aggiungiamo poi l'inquietudine per l'avvenire … Il concetto di educazione “come guida” sembra essere divenuto arcaico e il permissivismo, che qualche decennio fa apparteneva a una minoranza di nuclei familiari, è diventato oggi un modello educativo di massa, così come un tempo lo era l'autoritarismo. Allora chi è oggi il bambino? L'indefinitezza dei suoi contorni, come il logo di questo convegno sembra suggerire, non appartiene piuttosto allo smarrimento, alla confusione, all'incertezza di una generazione di educatori? Bambini sempre più attivi, sempre più in rete per cui aumentano le relazioni sociali usando anche forme nuove come e-mail e cellulari. Giocano di più con tutti, con i pari, con la mamma, con il papà, con i nonni, combinando i giochi più tradizionali del passato con quelli più tecnologici, mentre diminuiscono le differenze di genere - ci dice una ricerca dell'Istat del novembre 2005- che aggiunge però: “Il mondo dei bambini si presenta come un enorme puzzle, con alti livelli di personalizzazione del consumo e molteplici percorsi individualizzati, dati da una diversa combinazione di gusti, tempi e modalità di fruizione”. Il bambino allora, sognato, desiderato, per lo più figlio unico in una realtà sociale in cui è diventato merce rara e per questo sempre più spesso iperprotetto, rischia di diventare un grande sconosciuto. Di lui parlano tutti, aumentano gli specialismi e gli specialisti a lui dedicati, raffina le sue armi il mercato che ha nei bambini il target preferito, mentre assistiamo in contemporanea ad un atteggiamento di resa da parte dei genitori, ad una generalizzata incapacità di dire di no, il che significa rinunciare ad essere adulti di riferimento pur di non dover sopportare in alcun modo il malessere di dare anche quella piccola frustrazione. In questo senso, il tradizionale approccio culturale degli Incontri di Castiglioncello - rivolto a proporre terreni di sfida e di confronto all'indagine psicologica, sociale, pedagogica, giuridica, e così via, - si arricchisce oggi di qualcosa in più e cioè di una più spiccata attenzione per quegli spazi di riflessione che aiutino noi adulti, educatori e genitori, a formulare domande sulle condizioni stesse delle nostre forme di conoscenza dell'infanzia. Come orientarsi nel mare tempestoso di una società “complessa”? Quali valori trasmettere e come alle nuove generazioni? Quali e quanti saperi saranno indispensabili e non frutto di mode temporanee? Tempi dell'educazione distesi o tempi che sembrano rispondere all'accelerazione imposta della modernità? Come difendere, o è giusto difendere, i nostri bambini dall'invadenza dei media? Come raccogliere le nuove sfide della multiculturalità che oggi affronta il nodo dell'integrazione delle seconde generazioni, elemento di trasformazione per le società riceventi? “Essere stranieri fra stranieri è forse l'unico modo di essere veramente fratelli " suggerisce Magris (L'infinito viaggiare,Mondadori, 2005) Come può orientarsi un genitore tra le mille offerte formative alla ricerca della “qualità” spesso ridotta a contabile sommatoria di opzioni? Come stimolare la creatività, unico antidoto alla società dell'omologazione, nei nostri bambini? Nelle nostre domande incrociavamo sempre la categoria del tempo , in più sensi ed in più accezioni: il tempo appiattito sulla cultura del presente che ha inflitto un duro colpo alla memoria dei gruppi, che è stata materializzata e resa superficiale per effetto anche dell'azione congiunta dei nuovi media. Il tempo che incide anche sulla questione dei diritti (il tempo consuma i diritti più lontani, lasciando poi il campo libero a diritti più nuovi e scintillanti?) o come afferma Rodotà “il mondo dei diritti vive di accumulazione, non di sostituzione”? E se è così perché i diritti, quelli dei bambini qui ed ora nello specifico, sono sistematicamente violati o nella migliore delle ipotesi ignorati, fino trasformare la società contemporanea come imprigionata dentro una cultura dei diritti che si esaurisce in se stessa e nega il suo oggetto? E se dobbiamo fare i conti con la globalizzazione non sarebbe meglio lavorare a realizzare quella dei diritti prima di quella dei mercati? Ancora, se come dice un suggestivo detto degli indiani d'America - non abbiamo ricevuto la terra in eredità dai nostri padri, ma in prestito dai nostri figli - quali politiche attivare ai vari livelli che non siano solo governo dell'esistente, ma progetto ed assunzione di responsabilità verso le nuove generazioni? Quello che sempre ritornava era il tema del tempo della formazione nel senso della dilatazione dei tempi di formazione in antitesi alla pressante urgenza di acquisizione di competenze. Convinti come siamo che il sapere stia diventando il fattore competitivo fondamentale nell'economia globale della conoscenza, non vogliamo tuttavia che quest'affermazione si trasformi in un luogo comune valido per tutte le stagioni elettorali. A fronte del moltiplicarsi delle agenzie formative che connotano una società complessa, non possiamo non ribadire che la scuola pubblica cui è affidato un compito costituzionale e che deve dare senso e finalità ai saperi eterogenei che giungono da mille rivoli, ha bisogno di tempi distesi, non di accelerazioni, non di rincorrere una pseudo modernità, ha bisogno di accogliere per più tempo e per più anni i nostri ragazzi. Ha bisogno di non ridurre il tempo dell'apprendimento all'equazione tempo di lezione erogato ® apprendimento disciplinare. Si autorizza così il comportamento di adulti che non avendo più tempo per l'ascolto e risparmiandosi ogni tipo di riflessione o di autocritica delegano ai farmaci la normalizzazione di un problema. Per far sì cioè che il bambino si comporti nel modo che fa più comodo agli adulti. In particolare, si ripropone con forza una domanda: quanto riusciamo a garantire e accrescere per i nostri figli il livello di democrazia e di giustizia sociale nell'accesso alle opportunità educative? Non corriamo, piuttosto, il rischio di procedere verso le nuove frontiere del lavoro e della formazione gravati ancora dal peso delle vecchie differenze di classe e di condizione socio-economica, producendo nel contempo nuove discriminazioni ed inedite forme di emarginazione sociale e culturale? In che misura il sistema formativo pubblico riesce a garantire eguaglianza ed equità, superando il gravame delle condizioni familiari e socio-culturali di partenza? Quanto riesce a produrre esperienze positive in grado di contrastare i fenomeni dell'abbandono e della dispersione scolastica? Abbiamo imparato con gli anni e con passione politica a diffidare di ogni grande impianto riformatore e di sistema, di ogni punto e a capo pedagogico che non ascolta e interpreta le voci e le esperienze degli attori del processo di formazione, in primis i bambini e i giovani. Ma ancora di più abbiamo imparato a diffidare di ogni unto del signore che faccia riferimento a riforme a costo zer o: da qui, da Castiglioncello un forte ed accorato invito a chi per fortuna ha assunto dopo il 10 aprile la responsabilità politica di dirigere questo processo: alla metodologia dell'ascolto affianchi la tenace ricerca delle risorse perché la società della conoscenza non resti una vuota declamazione che non sa scendere dall'astratto cielo della politica all'affanno quotidiano dei suoi operatori e della società tutta! Da qui chiediamo ancora con forza un segnale immediato di inversione di rotta: si abroghino subito i decreti applicativi relativi alla scuola superiore che precocizzando scelte e diversificando percorsi sono contro ogni idea di inclusione! La ricerca dell'Istat, prima citata, ci ricorda, infatti, che ‘le differenze territoriali e sociali continuano ad esistere e prefigurano l'esistenza di segmenti di bambini con minori opportunità o addirittura esclusi, rispetto ai quali la scuola non riesce ancora a svolgere un ruolo di compensazione: 408 mila bambini dai 6 ai 17 anni in Italia negli ultimi 12 mesi non sono andati al cinema, non hanno letto libri, non hanno usato il pc, né Internet, né hanno praticato sport, il 6% dei bambini da 6 a 17 anni! Conferma del fatto che il bambino vive e cresce in contesti di vita ad alto grado di complessità per la presenza di fattori e dinamiche spesso eterogenei e contraddittori. “E' difficile fare le cose difficili”- diceva Rodari - per concludere poco più avanti: “Bambini imparate a fare le cose difficili”. Il vero rischio oggi è che siamo proprio noi adulti a scoraggiarci non per la difficoltà, ma per l'apparente inutilità del “difficile”, consegnando i nostri giovani, dopo averli traditi, alla società del “mi conviene e del fare finta”. "C'è un'età anagrafica nella quale non si può più cambiare il mondo?" chiedeva Fabio Fazio alla Rossanda pochi giorni fa in una trasmissione televisiva. Non ricordo, anche se posso intuire la risposta: il CGD avrebbe risposto che l'età anagrafica è solo una convenzione. Non ci neghiamo quella fatica del “vivere e quella perdita di senso del futuro che insidiano le giovani generazioni” come ha rilevato il Presidente della Camera il giorno del suo insediamento. Scriveva Nazim Hakmet: “Ma so bene Siamo consapevoli di tutto ciò. Ma siamo qui perché la speranza nel futuro sia di tutti.
Angela Nava Mambretti . |