INCONTRI
INTERNAZIONALI DI CASTIGLIONCELLO sedicesima edizione
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Carla Weber Conflitti generativi. Istituzioni e crisi della capacità di mediazione Caso “il bambino che non c'è” Ho incontrato Marco a sette anni, era in prima elementare. I genitori in ansia e fortemente umiliati dalla situazione che si era venuta a creare nell'esperienza scolastica del figlio, mi avevano chiesto una diagnosi sulla funzionalità del bambino, poiché le insegnanti indicavano un grave deficit nell'apprendimento e nella capacità di relazione con gli altri bambini. Come capita in questi casi, la lista dei problemi e dei disagi creati da Marco in classe era carica di rinvii a diverse e contrastanti letture della situazione, a seconda che a parlare fossero i genitori o le insegnanti. Cinque sedute con Marco mi diedero gli elementi necessari per interagire con le aspettative dei genitori e delle insegnanti riguardo ai compiti educativi che ciascuno riteneva di dover presidiare “per il bene del bambino”. Risultò chiaro che Marco aveva il problema di non potersi occupare delle ansie e delle paure di inadeguatezza dei propri genitori, esito di una valutazione esterna che arrivava dalla scuola, e nemmeno delle ansie delle insegnanti verso i risultati da raggiungere a fine anno, come previsto dal programma. L'incapacità del bambino di essere adeguato alle aspettative di entrambe le istituzioni, famiglia e scuola, era l'oggetto della crisi. Marco cercava di soddisfare le richieste di entrambe mostrandosi buono, amabile, assoggettato all'adulto, così come aveva appreso nelle proprie esperienze relazionali primarie. La richiesta di essere attivo, autonomo, in un contesto più movimentato e aggressivo come quello di un gruppo classe, di bambini vivaci e in competizione, lo metteva sottosopra, lo costringeva a misurarsi con situazioni paradossali e contradditorie per i valori proposti (ad esempio: Marco aveva dai genitori il divieto di sudare, muoversi, correre. Tutto ciò gli veniva indicato come un grave pericolo e per questo aveva l'obbligo di andare in bagno a cambiarsi la biancheria ogni volta che sudava. Per le insegnanti Marco era un bambino un po' ritardato che non si muoveva e non capiva quando doveva farlo con gli altri. Il fatto era che Marco non voleva cambiarsi in un contesto in cui nessun altro bambino lo faceva, sudava comunque anche stando fermo, veniva rimproverato a casa dai genitori e in classe dalle insegnati). L'esito era l'esperienza di un bambino cognitivamente bloccato, affettivamente in stato di confusione, i cui comportamenti oscillavano dalla passività con gli adulti all'aggressività con i compagni. Marco era il sintomo di un conflitto tra istituzioni, fatto di aspettative reciproche non appropriate e non verificate. È opportuno riflettere sulla capacità di un bambino di sopportare una domanda di questa portata. È bene, inoltre, considerare i limiti di un bambino a contenere l'incapacità degli adulti di fare i conti con le ansie, le paure, i sensi di colpa, le incertezze valoriali della genitorialità e del compito educativo. Marco non aveva deficit intellettivi, ma portava i segni dei fantasmi di una coppia che aveva generato tardivamente un figlio e lo temeva non normale. Tacitamente le difficoltà di Marco erano messe in relazione alla precedente esperienza di inserimento alla scuola materna. Per i genitori di Marco quella era stata un'esperienza insignificante, il bambino aveva frequentato poco perché preferiva rimanere dalla nonna e avevano aspettato che fosse più grande per mandarlo a scuola, facendogli così perdere un anno. Le insegnanti invece avevano ricevuto dalla logopedista, che lo aveva visto alla scuola materna, una diagnosi di ritardo nello sviluppo psicoaffettivo e nel linguaggio. Esse valutavano negativamente i genitori per aver nascosto le difficoltà pregresse, orientavano la lettura della difficile situazione attenendosi alla nota diagnostica di tre anni prima, facendola diventare sostanziale nel legittimare le loro difficoltà e nel segnalare istituzionalmente il caso per una verifica psicologica. La diagnosi fatta alla scuola materna avrà l'effetto di riportare Marco fra le pareti domestiche e di rinforzare difensivamente quel sistema protettivo, bloccando così un processo di crescita che avrebbe avuto bisogno di maggiore apertura alla complessità della realtà sociale e all'esperienza di sé in relazione ad altri bambini. Viene da chiedersi retoricamente: “le diagnosi a chi servono”? In questo caso, non certo a Marco. Vediamo, infatti, in atto il blocco di una relazione fra soggetti e contesti che viene reificata come proprietà del soggetto più debole, il bambino. Assistiamo alla fissazione di una situazione che si trasforma in perdita, in un tempo evolutivo che inesorabilmente va avanti e rischia nella ripetizione e nella conferma di divenire persistente, di incistarsi profondamente. Il rinvio alla diagnosi sembra servire a negare i conflitti presenti e a difendere e legittimare i ruoli professionali in gioco, la stabilità e l'ordine istituzionale esistente. Insensibili alle differenze che l'ambiente propone le istituzioni che si occupano di educazione e sviluppo paradossalmente idealizzano narcisisticamente il compito educativo, indifferenti al bambino reale e alla sua storia. Ascoltando certe considerazioni degli addetti ai lavori viene da pensare che quel compito educativo di cui parlano potrebbe essere perfettamente sviluppato se non ci fosse il bambino a scombinare le cose, a creare problemi, a segnalare inadeguatezze e incapacità. Tracce di paranoia istituzionale rendono sofferenti le relazioni tra i soggetti che le abitano, lavorandoci e fruendone i servizi. Come accade che nate per perseguire un compito primario le istituzioni divengano indifferenti al compito per il quale sono nate? Formulo l'ipotesi che ciò avvenga per una graduale negazione del conflitto nel loro funzionamento. Nei contesti istituzionali spesso osservo, in presenza di un sovraccarico di aspettative non mediate da traduzioni che le possano rendere riconoscibili e trattabili, un progressivo degrado nelle relazioni di contatto e di scambio tra le persone. Quando la posta in gioco è affettivamente alta, come l'avere in carico responsabilmente la crescita di un bambino, e nella comunicazione reciproca risulta difficile intravedere forme di integrazione o cooperazione possibili, vengono vissute come improprie al compito educativo e dannose all'immagine positiva di sé e del proprio ruolo, quelle forme antagonistiche che emergono in prima battuta dalla tensione del confronto. L'inibizione dell'aggressività vissuta soprattutto nel suo potenziale distruttivo più che generativo e creativo, comporta l'istituzione di schermature, di diaframmi difensivi nella comunicazione. Diviene pratica costante il rinvio del confronto fra differenze, l'astensione dal costo emotivo richiesto nella relazione “in presa diretta”, l'evitamento di investimenti che si sono rivelati frustranti. Sono esperienze relazionali, quest'ultime, che progressivamente ritirano la presenza viva, progettuale e lasciano attiva la forma, il ruolo istituito e le procedure via via consolidate a definire i codici dello scambio. Una grande rimozione regola lo scambio e separa nella reiterazione delle azioni quotidiane dalle ragioni fondanti l'istituzione stessa, dalle finalità dichiarate. La conferma del valore della propria esistenza è data dalla conferma del valore della istituzione di appartenenza. La conservazione, la stabilità dell'istituzione diviene necessaria ed essenziale per i soggetti stessi che in essa depositano le aspettative di senso e significato della propria presenza. Le norme istituzionali, da strumenti regolatori della complessità delle relazioni in gioco divengono obiettivi da perseguire, irrigidendosi e fissandosi in un ordine omologante, normalizzante, che non contiene più l'unicità e la diversità dei soggetti. Per fare i conti con la complessità della vita reale si separa e si specializza, due operazioni che permettono di alleggerire il carico e di sentirsi capaci, di afferrare cioè le manifestazioni fenomeniche della realtà e di definire interventi efficaci. È proprio la ricerca di risposte, di soluzioni ai problemi ad aprire la via ai bisogni di specializzazione che progressivamente danno cittadinanza alle relazioni funzionali, alle azioni riduttive della complessità reale. La possibilità di accedere al conflitto e alla sua evoluzione generativa, è il tema della democrazia nell'educazione e si fonda sulla necessità di dare cittadinanza alle differenze, voce alle minoranze per la crescita di tutti. Se si organizza l'istituzione in modo che sia impermeabile al conflitto questa non può che divenire separata dalla realtà, perdere il compito primario che le dà senso e legittimità. Occuparsi di Marco, da psicoterapeuta, ha significato occuparsi del conflitto tra codici affettivi (Fornari, 1979)[1] diversi, protezionistici e rallentati gli uni e efficientisti gli altri. Le insegnanti professionalmente molto preparate proponevano l'indifferenza della tecnica, concentrando l'attenzione su compiti specifici, sostenuti dallo specialismo didattico e dallo psicologismo pedagogico. Accanto a questo, per far dialogare gli adulti è stato necessario portare alla luce e far riconoscere nelle azioni reciproche il vincolo dell'autoreferenzialità delle istituzioni in gioco, la presenza di difese e rimozioni che rendevano il bambino “il grande assente”, mentre tutti i limiti e le mancanze avevano il nome proprio della sua presenza. Nel momento in cui viene interpellato un terzo, anche se con obiettivi antagonistici, il conflitto prende parola. Il terzo può dare voce a Marco, ostaggio di posizioni che prendevano consistenza proprio dal loro tenersi insieme cortocircuitando le rispettive verità e difendendo il valore delle rispettive idee educative e delle azioni conseguenti. Fino a quel momento prive di intermediazione le istituzioni si mostravano l'un l'altra bastanti a sè stesse e il bambino diventava nel loro antagonismo una pallina da ping pong. L'intervento di mediazione messo in atto tra i diversi soggetti in gioco “salverà” Marco dal punto di vista scolastico, diverrà in pochi mesi ottimo scolaro, con la soddisfazione di insegnanti e genitori. Il prezzo sarà un bambino dimezzato, a “mezzo busto”, per la postura che assumerà da scolaro modello anche fuori dalla scuola. Ma Marco potrà mai accedere a se stesso? Essere adeguato al contesto scolastico tacita la tensione generata da alcuni conflitti e ne attualizza altri. I genitori mi ricontattano l'anno seguente. Sì sono contenti, Marco è il migliore della classe, ma non riescono a farsi ascoltare, obbedire da lui. Marco scoppia a ridere quando loro parlano, non riescono a farlo smettere, non vuole fare niente con loro, rifiuta qualunque attività fisica. Sia il padre che la madre si sentono degli esclusi nell'interazione quotidiana con il figlio. È frustrante per loro sperimentare di non potene controllare i comportamenti, nemmeno castigandolo. - Ma cosa pensa? Perché ride così - mi chiedono - potrebbe convincerlo ad ascoltarci? A otto anni Marco ha verso i genitori tutti i comportamenti sovversivi, aggressivi riconosciuti di solito in un adolescente. Il bambino è stato costretto ad una crescita anticipata, ha dovuto occuparsi degli altri. Riesce meglio se non tiene conto delle indicazioni dei genitori, non li riconosce capaci di sostegno per il suo affermarsi sociale, cerca figure sostitutive a cui mostrare le proprie capacità. Ha trovato nella scuola, nel soddisfare le richieste delle insegnanti, la possibilità di affermarsi e di essere riconosciuto “bravo”. La sfida, indicata da questo caso, è mettere insieme il bambino immaginato, pensato, idealizzato con il bambino reale, che esprime se stesso nella contingenza delle relazioni, differenziandosi e confliggendo con le proposte che riceve. Ciò richiede la tollerabilità di un passaggio trasformativo (Bion, 1983)[2] che riguarda tutti gli attori in gioco, adulti e bambini, ma con responsabilità diverse. Asimmetrie di ruolo e parità di posizione nella generatività dello scambio connotano l'ambiguità psicoaffettiva dell'esperienza relazionale adulto-bambino. Generare e allevare un bambino riporta in scena il proprio puer (Pagliarani, 1985)[3] e la capacità di réverie delle angosce distruttive e mortifere che ciascuno ha sviluppato nell'esperienza di relazioni primarie sufficientemente buone, cioè supportive nei conflitti intra e inter- psichici. La responsabilità dell'asimmetria educativa e l'irreversibilità della genitorialità segnano una relazione che si qualifica proprio attraverso l'elaborazione generativa, progettuale di desideri e aspettative messe in tensione e in prove di forza tra soggetti che si contendono la vita, nella possibilità e capacità di comprendere ed essere compresi, di amare ed essere amati. Eludere la conflittualità è un fatto culturalmente condiviso per l'idea negativa di conflitto che ad esso associa comportamenti distruttivi e antagonistici. Non possiamo non chiederci perché prevale questa visione pacificata delle relazioni, anziché il contrario. Se consideriamo che proprio il conflitto fonda psichicamente il nostro costituirci soggetti, la possibilità di ricerca della nostra individuazione, dobbiamo riconoscere che emotivamente deve essere piuttosto intollerabile lasciare aperta ed esposta ad altri la definizione della nostra esistenza. Arrischiarsi nelle tensioni difficili da governare proprie degli stati aggressivi e distruttivi, sembra da evitare così come il persistere nell'angoscia confusiva dell'ignoto, del vuoto, del non conoscibile. L'esito però di quella che può sembrare una certa saggezza relazionale fa riconoscere un proliferare di relazioni che si stabilizzano nella collusione, nello sviluppo di quelle difese che portano all'autoreferenzialità e, dato piuttosto inquietante dell'oggi, si specializzano nell'indifferenza (Morelli, 2006)[4]. L'accessibilità al conflitto Il caso di Marco rende visibili alcuni esiti dell'incontro tra esigenze di crescita di un bambino e le proposte educative istituite per sostenere tale processo. Tante energie emotive dei diversi soggetti coinvolti e più investimenti professionali specializzati, non sono stati sufficienti a riconoscere le conflittualità in gioco e a mobilitare azioni di cooperazione per esplorarle. Questo fa riflettere soprattutto sulla rimozione sociale delle differenze, e, nello specifico, sulla riduzione dei processi di differenziazione e negazione delle asimmetrie di responsabilità nei ruoli educativi, di governo e di cura. Ma la questione più rilevante che in questa riflessione vorrei proporre riguarda l'inaccessibilità al conflitto, come tratto costitutivo dell'esperienza relazionale contemporanea da un lato, e la crisi della capacità di mediazione delle istituzioni, dall'altro. Da una decina d'anni, come terapeuta, mi confronto con la presenza sociale di una problematica narcisistica messa a fuoco da Lawrence, Bain e Gould (1996)[5]con il termine me-ness. Si tratta di una dinamica intra e inter-psichica centrata sull'autoreferenzialità del soggetto, come difesa dal rischio di frammentazione e perdita in relazioni sociali non supportive, allo stesso tempo invasive e confusive. Il processo di individuazione soggettiva, come ho approfondito nella ricerca (Weber, 2004)[6], avviene oggi in relazioni primarie fortemente esposte agli effetti della crisi della modernità, caratterizzati dall'incrinarsi del sentimento positivo di progresso, di sicurezza rispetto ai privilegi conquistati e dalle paure indotte da un sapere scientifico e tecnologico non controllabile. Il soggetto individua se stesso assoggettandosi alla relazione che l'ha generato e in quella relazione di forte dipendenza fonda psichicamente se stesso. “Nessun soggetto emerge senza un attaccamento appassionato nei confronti di coloro dai quali dipende in maniera fondamentale”, afferma Judith Butler (2005, p.13)[7]. Il conflitto è costitutivo della vita stessa, riguarda l'esperienza stessa del processo continuo di differenziazione e autodeterminazione in un contesto di grande complessità in cui le relazioni assumono molteplici forme, direzioni e profondità. Il bambino viene concepito, nasce e cresce in contesti relazionali spesso caratterizzati da una certa fragilità e inconsistenza per la caduta collettiva del sentimento di sicurezza, di stabilità, di fiducia nelle possibilità umane di controllare ciò che sembra indecidibile per la conoscenza, ma comunque invasivo nel quotidiano e poco tangibile nell'esperienza. Reale e irreale sembrano confondersi. La presenza di un bambino da reale diviene ir-reale per la difficoltà di contenere e considerare la complessità di una vita che storicamente diviene, in una realtà da definire mentre si vive, alla temperatura delle relazioni possibili e non quelle idealizzate. Il bambino ir-reale o “il bambino che non c'è” come l'ho definito nel paragrafo precedente, fa pensare a due problemi che si incontrano regolarmente quando si lavora con le istituzioni educative. Il primo riguarda il bisogno di esternalizzare le questioni che si incontrano. Nel considerare quello che sta succedendo , un movimento psicodinamico immediato porta fuori dal contesto delle azioni locali e contingenti alla ricerca di cause esterne, del resto non difficili da trovare. Una ricerca diagnostica che si rivela poi poco utile a fornire elementi di azione praticabili, se si è orientati al cambiamento, alla trasformazione di una situazione critica in quanto fanno riferimento a quello che altri dovrebbero fare. Il non porsi dentro la questione, impedisce di vedere proprio quei legami che possono essere modificati, attualizzati in modo da interagire realmente e produrre qualche scoperta, indicare vie alternative. Negare la propria implicazione non permette di scoprire le relazioni interne alla situazione stessa e di agire sui propri comportamenti per modificare le dinamiche interpersonali e istituzionali. Il secondo problema che si presenta nelle situazioni di conflitto tra soggetti e istituzioni riguarda la visione catastrofica e pauperistica della situazione stessa. Le questioni prese in considerazione vengono interpretate da una lettura tragica del presente, come se fosse, quello che abitiamo, l'ultimo mondo possibile (De Martino, 1977)[8]. Se quello che avviene non può essere ricondotto ad un certo ordine istituito, perde presenza e fatica a trovare un senso in una narrazione condivisa. Ciò che non viene compreso, come abbiamo visto nel caso di Marco, non rimane inerte, né scompare, ma istituisce tensioni che producono interpretazioni e proiezioni reciproche che permettono di eludere i conflitti. L'irreale può contenere le forme che la realtà non riesce a contenere e tenere insieme le ambiguità di una situazione. Il caso narrato porta a riflettere sulla presenza di forme diverse di relazione tra soggetto e istituzione e a mostrare come non si possa prescindere da quel legame, anche quando se ne riconosce l'inappropriatezza o addirittura i limiti per lo sviluppo del soggetto. Il bisogno di appartenenza e di riconoscimento, alla base del vissuto di esistenza dei soggetti, è strettamente connesso con il bisogno di attribuzione di valore e di esistenza all'istituzione che ha contribuito a costituire quel legame di appartenenza rendendosi riconoscibile, familiare, naturale. Come essere bioculturale, il soggetto umano vive emancipando se stesso nelle relazioni primarie e via via, con adattamenti progressivi, nelle relazioni sempre più esterne, fuori dal mondo privato della famiglia. Le istituzioni che socialmente integrano i compiti della famiglia nella crescita dei figli e presidiano la dimensione pubblica del compito educativo, con grande fatica si incontrano, a volte si affiancano, altre volte si ignorano. Una costante nelle interazioni tra soggetti e istituzioni o fra le regole di istituzioni diverse riguarda la difficoltà a riconoscere e ad affrontare i conflitti implicati nella natura delle relazioni stesse. Oggetto di negoziazione continua tacita ed esplicita nello scambio tra istituzioni e soggetti divengono le differenze delle istanze educative, l'unicità dei soggetti, la molteplicità degli apporti, le competenze distintive in gioco, la combinazione delle aspettative individuali e collettive, la definizione di spazi e tempi. In tutto questo il soggetto in crescita, il bambino, diviene oggetto, in quanto può realizzare le intenzioni, dare corpo all'immaterialità di “compiti impossibili” se non nella relazione. Nella relazione tra soggetto in crescita e istituzioni la possibilità di riconoscere e di far evolvere generativamente i conflitti sta nella capacità istituente dei soggetti stessi. Sempre più, nella complessità del tempo presente, abbiamo bisogno di istituzioni mediatrici, capaci cioè di mediare la complessità del mondo con l'incapacità soggettiva di farvi fronte. Necessitiamo cioè di forme istituzionali in grado di contenere, senza andare in paranoia, tutta la varietà delle scelte possibili per lo sviluppo di un compito educativo spesso da riformulare, in quanto appare improprio o estraneo alla cultura vigente. Altri conflitti riguardavano la funzione difensiva delle istituzioni (Jaques, 1978)[9]per i soggetti, cioè di difesa dalle loro angosce primarie. Sono conflitti che tengono in tensione aspettative di realizzazione e riconoscimento da parte dei singoli e inadeguatezza delle risposte o mancanze dell'istituzione di appartenenza, rese tanto più intollerabili quanto alta è l'identificazione nell'istituzione e la natura idealizzante dell'investimento. Se combiniamo soggetto, istituzione e conflitto, l'esperienza ci mette a confronto con scene diverse. Ogni scena delinea diverse visioni della funzione istituzionale e informa di significati differenti le relazioni interne ed esterne. Nello specifico, riconducendo questa analisi al caso presentato, a confronto possiamo vedere una visione che potremmo chiamare “tolemaica” dell'istituzione e una visione “copernicana”. Sono due definizioni che differiscono nella funzione sociale e di sostegno al soggetto, quelle che propongono. Nella visione “tolemaica” l'istituzione è autocentrata, rispetto al soggetto, si propone stabile e certa nella propria definizione. Le proprie regole interne, i propri valori vengono proposti come unico riferimento, le diversità soggettive per interagire hanno bisogno di appropriarsi del linguaggio stesso dell'istituzione. Essa pretende di risultare priva di ambiguità e nega ogni forma di conflitto. Il soggetti dipendono da ciò che è stato istituito (Castoriadis, 1995)[10] e non esiste uno spazio istituente di possibili integrazioni o innovazioni. Rimane compito del soggetto cercare le modalità e i linguaggi per entrare e uscire dalle diverse istituzioni con cui interagisce nel suo percorso di crescita, poiché ogni forma di intermediazione viene negata. Le istituzioni di questo tipo si difendono dall'unicità e dalla differenza e si propongono e rappresentano perfette e compito del soggetto è trovare il modo per accedere e farsi accettare, essere riconosciuto corrispondente a ciò che è stato istituito, comprenderne i linguaggi, le regole, i rituali necessari. Nella visione “copernicana”, l'istituzione invece si presenta loosley coupled (Weick)[11], a legame debole. Le regole, i linguaggi si definiscono nell'esperienza interattiva delle persone e i confini di legittimazione reciproca non rappresentano delle linee definite ma margini più laschi di intermediazione possibile. L'istituzione non è indifferente al soggetto. La relazione tra soggetto ed istituzione si definirà in azioni concordate mediante l'esplorazione reciproca dei vincoli e delle opportunità relativi allo scopo divenuto nello scambio riconoscibile. Le diverse istituzioni presenti nel contesto di vita del bambino, ad esempio, si lasciano attraversare da quella soggettività e nell'interazione situata definiscono lo scambio effettivo. Nella visione “copernicana” l'istituzione si lascia perturbare dalle differenze delle soggettività, investendo in unicità e in creatività il tratto distintivo del proprio compito educativo. In essa l'autorità è riconoscibile, comprensibile e accessibile. I conflitti che le diverse presenze portano mantengono in tensione l'istituzione stessa accrescendo la potenzialità istituente di nuove forme, linguaggi e valori in relazione alle esigenze dei bambini del presente. [1] Fornari F., I fondamenti di una teoria psicoanalitica del linguaggio, Boringhieri, Torino 1979 [2] Bion W. R., (1965), Trasformazioni: Il passaggio dall'apprendimento alla crescita, Armando, Roma 1983 [3] Pagliarani L., Il coraggio di Venere, Raffaello Cortina Editore, Milano 1985 [4] Morelli U., Conflitto. Identità, interessi, culture, Meltemi, Roma 2006 [5] Lawrence W. G., Bain A., Gould L., 1996, The Fifth Basic Assumption, London, Free Association, vol.6, part.1, n. 37; trad. it., Il quinto assunto di base, Psicoterapia e Scienze Umane, n. 1, 1999, Franco Angeli, Milano [6] Weber C., Inventare se stesse. Adolescenti sulla soglia della civiltà planetaria, Meltemi, Roma 2004 [7] Butler J. , (1997), La vita psichica del potere, Meltemi, Roma 2005 [8] De Martino E., La fine del mondo, Einaudi, Torino, 1977 [9] Jaques E. (1970), Lavoro, creatività, giustizia sociale, Boringhieri, Torino 1978 [10] Castoriadis C. (1975), L'istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, Torino 1995 [11] Weick K., Organizzare, ISEDI, Torino 1993 |