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INCONTRI
INTERNAZIONALI
DI CASTIGLIONCELLO
quindicesima edizione

il bambino sregolato


alle relazionirelazioni





Cittadini “Sovrani”.
Forme concrete di educazione alla legalità in Sicilia
Pia Blandano, Presidente associazione “Libera”

(saggio pubblicato in “Il piacere della legalità” a cura di Jole Garuti; Libri Scheiwiller, Milano 2002)

Sulla presenza delle diverse forme di criminalità organizzata e di corruzione ci sono diverse interpretazioni, ottiche di lettura divergenti, conoscenze libresche e spesso romanzate, influenze cronachistiche. Indubbiamente, rispetto ad alcuni decenni or sono, l’ “illegalità” è entrata a far parte della “vita quotidiana” della nostra società.
Dell’ “illecito” diventato sistema sono state avanzate diverse interpretazioni, a volte convincenti, a volte superficiali, spesso negativamente influenzate dall’urgenza della cronaca, non tutte utili e utilizzabili all’interno del campo della scienza dell’educazione e nell’ottica di una progettazione di educazione alla legalità.
Molte volte ci troviamo di fronte a una rappresentazione sociale dei fenomeni, rappresentazione che procede per categorizzazioni, cioè per successive semplificazioni della realtà, capaci di generare stereotipi e pregiudizi.
In generale la costruzione di stereotipi ha la funzione fondamentale di rendere generali “fatti” personali e particolari, e assume uno spessore via via più rilevante quando si procede dal vicino al lontano. Se per esempio, pensiamo alla figura del “mafioso”, ci rendiamo conto che anch’essa risponde ad una tipizzazione. Di essa si può avere una conoscenza diretta e, in questo caso, l’immagine si arricchirà di particolari che la renderanno sempre più aderente al modello reale e visibile; oppure si può averne una conoscenza indiretta ed idealizzata, con una sua configurazione carica di connotati precisi, questa volta non più riconducibili ad una persona concreta ma resa anonima da un procedimento di generalizzazione favorito spesso dalla divulgazione culturale e intellettuale. La costruzione di stereotipi, intesi come modelli di riferimento, fa, pertanto, parte di un processo di istituzionalizzazione della vita quotidiana. Qui, per istituzionalizzazione si intende quel processo attraverso il quale la società e le sue istituzioni, riescono ad appropriarsi di determinati fenomeni ( ad esempio: terrorismo, tossicodipendenza, mafia, corruzione, ecc.), a definirli socialmente con largo consenso, a prospettarli come problema sociale di un certo tipo, a mobilitare partecipazione, risorse, potere, intervento, canalizzandoli con successo verso la determinazione degli stessi.
Il problema si solleva quando lo stereotipo si trasforma in pregiudizio, capace di creare barriere astratte impregnate di ostilità, rancore ed interpretazioni fuorvianti.
In generale è la scarsa conoscenza che porta alla determinazione di pregiudizi; meno sono le indicazioni specifiche su un individuo (o su un fenomeno), superiore sarà la tendenza ad attribuire delle caratteristiche che si presume siano quelle del gruppo di appartenenza; più saranno i ragguagli sul suo conto, maggiore sarà la probabilità di considerarlo quale in effetti è.
E’ il procedimento secondo il quale si identificano, per lo più, il fenomeno delinquenziale e quello della microcriminalità con le fasce sociali più povere e deprivate, e vengono definite “a rischio” sociale quei quartieri dove più tangibili sono le condizioni del degrado ambientale e presenti reati ascrivibili al codice penale (furti, scippi, spaccio di droga, ecc.), senza tener conto di tutte quelle altre forme di corruzione e uso distorto del potere, anch’esse penalizzabili e collocabili a un livello socio-economico di insospettabile rispettabilità (reati dei colletti bianchi).
La necessità di procedere alla identificazione e al pieno riconoscimento dei meccanismi che favoriscono l’insorgenza dei fenomeni illeciti e il diffondersi di forme più o meno accentuate di criminalità organizzata, ha spinto la scuola a confrontarsi con una tematica che fino ad alcuni anni fa era misconosciuta o intrappolata in teoriche lezioni di “educazione civica”.
La Regione Sicilia dal 1980 ha fornito alla scuola uno strumento legislativo, la L.R.51/80, che legittima un suo intervento specifico nella lotta alla mafia. Non si tratta di operare sul versante repressivo del fenomeno ( che è opera specifica delle forze dell’ordine e della magistratura), ma di agire in maniera preventiva. Ciascuno deve fare la sua parte. Non farla non significa essere tout court mafioso, ma anello più o meno consapevole di quella “zona grigia”, individuata da Nando Dalla Chiesa, che al contempo separa e unisce i cittadini da chi esercita un potere privato e finalizzato al proprio interesse. A scuola oggi ( ricorrendo ai finanziamenti regionali o senza di essi) si attivano percorsi educativi e didattici per sviluppare nei giovani una coscienza democratica e antimafiosa: si studiano le origini storiche del fenomeno, si approfondisce la conoscenza dei fatti di cronaca, dei provvedimenti legislativi e amministrativi, del funzionamento degli appalti, si osservano i comportamenti, si sperimentano forme di gestione democratica (cooperative, consigli comunali dei ragazzi, comitati per i diritti, interventi nel territorio, scambi culturali e gemellaggi con realtà diverse, ecc.).
Dopo una prima fase nella quale il panorama delle attività privilegiate è stato alquanto ristretto e centrato su momenti circoscritti e di immediata fruizione (dibattiti, conferenze, proiezioni di films a prevalente contenuto mafioso), nel tempo si è sempre più sviluppata un’attenzione verso forme diverse del “fare” educazione alla legalità, nelle quali l’alunno potesse assumere il vero ruolo di protagonista piuttosto che di “passivo” spettatore. Oggi, grazie al lavoro di socializzazione e scambio di progetti e prodotti realizzato anche a livello nazionale, è aumentata la possibilità di confronto su un terreno più ampio e consapevole e si è avviata la ricerca di percorsi innovativi coinvolgendo una parte di docenti che, spesso delusi dagli scarsi risultati, ma molto di più dall’isolamento in cui si trovano a lavorare , vogliono acquisire una nuova consapevolezza e vogliono formarsi oltre che formare.
Fra le proposte sperimentate in questi anni un posto di rilievo hanno quelle attività che tentano di porre il ragazzo in rapporto con la realtà circostante. Esse servono a fare acquisire consapevolezza dei problemi e a fornire chiavi di lettura più o meno personali e critiche.
In quest’area si possono includere il cineforum, gli incontri con esperti, e le ricerche, intese quest’ultime come studio del territorio, analisi dell’informazione dei mass media, approfondimenti a carattere storico e letterario. Questo tipo di attività, così come sono state pensate e realizzate, hanno la duplice funzione da un lato di portare alla ribalta le problematiche emergenti dal sistema illegale di potere, dall’altro di individuare le possibili cause che ne hanno determinato l’espandersi. Ma al contempo presentano un rischio: la tentazione di “restare alla finestra” ad osservare un fenomeno che è altro da me, senza realmente entrare in una dimensione di confronto e di approccio sistemico.
Ma la conoscenza “ delle cose” non sempre è sufficiente a determinare i cambiamenti desiderati. Non ci sono punti si partenza al di fuori di noi, di ciascuno di noi.
Basta solo mettersi in discussione, con l’umiltà che contraddistingue chi è in un percorso di ricerca, attento all’azione non violenta, al carattere aggressivo dei dati della quotidianità, all’ingranaggio di cui siamo parte.
Il cambiamento, che è il principale scopo dell’educazione, è reale se i punti di partenza sono collocati sulla pista giusta; sono, cioè, orientati e hanno il carattere della novità, o come oggi è più corretto dire, dei nuovi linguaggi.
A tale scopo risultano molto utili e significative le esperienze che consentono di analizzare quella quotidianità alla quale siamo abituati nel nostro fare routinario e che ci impedisce di avvertire il significato delle azioni che compiamo.
Attraverso queste proposte, realizzate per esempio all’interno di “laboratori-osservatori”, l’alunno può imparare a “guardarsi e a guardare” in modo critico. Può focalizzare il proprio interesse su ciò che si è e su ciò che si vorrebbe essere; può provare a mettere a nudo le relazioni interpersonali a partire dal proprio modo di porsi nei confronti degli altri. Chiaramente non si tratta di forme specialistiche ma di percorsi di ricerca di forme di comunicazione e di orientamento per rendere il ragazzo consapevole di se stesso e delle proprie attitudini, stimolando in lui una flessibile capacità di adattamento ed una inflessibile onestà di sentimenti, aiutandolo a leggere criticamente il reale attorno a lui ed insegnandogli contemporaneamente ad operare costruttivamente per sé e per gli altri.
Per lo più queste attività fanno riferimento alla pratica dei giochi cooperativi e alle tecniche dell’educazione alla pace e hanno bisogno di momenti di socializzazione all’esterno del laboratorio con forme di animazione, produzione di video, allestimento di una mostra, pubblicazione del giornale della scuola.
Partendo dalla constatazione che la formazione della personalità del ragazzo non avviene, né può avvenire soltanto dentro la famiglia in quanto altre scelte l’individuo è costretto a compiere nel suo inserimento nella società, un’attenzione particolare deve essere prestata a ciò che viene agito dentro la scuola, sotto forma di comunicazione, comportamenti, relazioni interpersonali.
Consideriamo il caso di un ragazzo cresciuto in un contesto familiare mafioso, che attraverso la socializzazione primaria interiorizza questo mondo, si rende partecipe dei valori, delle mete, della generalizzazione dei ruoli che esso gli fornisce.
Gli educatori scolastici debbono chiedersi sempre quale sarà il suo atteggiamento nel momento in cui dovrà entrare in rapporto con “altri” mondi, diversi sia nella struttura, nella funzione sociale, nelle componenti relazionali, sia nella scelta e presentazione di modelli alternativi.
Ogni nuovo contenuto da interiorizzare può e deve, in qualche modo, essere sovrapposto a questa realtà già presente nel ragazzo, mentre è molto più difficile sostituirla ex novo.
Molti ragazzi che vivono in contesti particolarmente difficili, vedono costantemente negata l’affermazione della propria persona: gli angusti ambiti di movimento in famiglia, la limitatezza delle prospettive per il futuro, un destino di adulto già segnato, la difficoltà di trovare ascolto e comprensione sono gli elementi di un malessere che soltanto esplicitandosi, può assumere le forme del riscatto sociale.
In generale, mentre per superare comportamenti e conoscenze apprese nell’ambito familiare è necessario attivare una serie di eventi forti, tutto ciò che viene “vissuto” in momenti e contesti diversi viene facilmente messe tra parentesi. La mancata consapevolezza di questo fatto induce spesso nei docenti atteggiamenti di rinuncia e demotivazioni dovuti alla constatazione della estrema labilità dei risultati degli interventi educativi con particolare riguardo a quelli volti all’interiorizzazione dei valori della legalità.
Basti pensare all’omertà. I ragazzi della fascia dell’obbligo, non tutti ma in buona parte, sono fortemente impregnati di atteggiamenti omertosi. In alcuni casi la scuola, o meglio qualche insegnante maggiormente sensibile, si è posto il problema di rompere questa “cortina del silenzio” che condiziona la vita della comunità- classe. Spesso puntando più sull’ “incidente critico” che su una reale programmazione, si è tentato di creare i momenti di riflessione e di critica costruttiva nei confronti di questi comportamenti. A volte i risultati sono sembrati confortanti, ma il più delle volte è bastato un evento apparentemente insignificante per far crollare quello che si stava costruendo.
Nel ragazzo la convinzione che la conoscenza appresa nel contesto familiare sia la realtà si attua quasi automaticamente; nell’ambito della scuola è invece necessario verificarne con estrema cautela le valenze e procedere con particolari tecniche pedagogiche per renderla funzionale alla crescita dell’individuo. Tali tecniche servono a realizzare nei ragazzi la conoscenza di se stessi e del mondo attraverso un controllo continuo dal basso dello stesso processo educativo..
Certi comportamenti dei ragazzi, inaccettabili in quanto connotati da valenze di mafiosità ( prevaricazione, omertà, violenza, ecc.) potrebbero essere una sorta di risposta a particolari stimoli che provengono dagli insegnanti.
La riuscita individuale è uno dei punti di forza della nostra cultura scolastica, ed esercita una influenza fortemente negativa e nel clima educativo generale, e nel processo di socializzazione del ragazzo, accentuando situazioni individualistiche, l’isolamento, l’emarginazione, il volere emergere per altre vie.
La scuola corre il rischio di diventare una struttura riproduttiva di valori culturali e di modelli sociali compatibili con gli interessi dei gruppi dominanti della società.
E, ancora, l’istituzione scolastica è il sistema della quotidianità inosservata, dove anche quelli che possono essere definiti come “incidenti critici”, rischiano di passare inosservati, nel senso che o avviene un fenomeno di rimozione inconsapevole di ciò che “non deve” essere visto, o l’assuefazione alla frequenza degli stessi ai vari livelli di percezione, di fatto, è tale che ne viene impedita una qualche forma di presa d’atto consapevole e critica.
E poiché la scelta della realtà mafiosa può risultare per alcuni ragazzi un passaggio obbligato, la scuola non può e non deve dimostrarsi indifferente rispetto al nodo centrale dei processi emarginativi, operando una lettura dei soggetti che in essa interagiscono e andando oltre il mero cognitivismo disciplinare.
Secondo Raffaele Laporta [1] una scuola che possa considerarsi veramente democratica deve essere connotata da tre caratteristiche fondamentali: primo, che sia aperta veramente a tutti fino in fondo; secondo, che riesca a mettere in grado ognuno di diventare elemento funzionale della società e una personalità autonoma ed equilibrata; terzo, che, a questo scopo, sia in grado di formare personalità autonome e critiche. Possiamo senz’altro assumere queste indicazioni di Laporta come “idee guida” per cercare di capire a quali condizioni e attraverso quali approcci metodologici una scuola riesce ad essere luogo in cui i ragazzi fanno esperienza di vita democratica.
La prima delle tre caratteristiche implica una incondizionata adesione da parte di tutto il corpo docente di una scuola, al dettato Costituzionale, là dove viene sancito il diritto all’istruzione per tutti i cittadini. Non si può ignorare che tale adesione risulta spesso più formale che sostanziale e che purtroppo, se a parole viene conclamato il diritto di ognuno a frequentare la scuola, esso è calpestato da quanti perseguono logiche selettive sia nella prassi organizzativa (formazione delle classi, accettazione delle iscrizioni), sia in quella didattica. E’ quindi anzitutto necessario verificare sempre se sono state messe in atto tutte le condizioni perché ogni ragazzo sia stato accolto effettivamente nell’istituzione scolastica. Se ciò è avvenuto veramente, se tutti i ragazzi, compresi gli svogliati, i portatori di handicap, i turbolenti, gli ignoranti, quelli malvestiti e sporchi , gli stranieri, gli zingari, e tutti coloro che affollano la categoria dei cosiddetti droup-out , .... , sono considerati tutti egualmente “figli di principe”, secondo una espressione di Franco Fortini, allora soltanto una scuola potrà avviare reali percorsi di formazione democratica.
Gli altri due aspetti di una scuola democratica, citati da Laporta, riguardano invece la dimensione più strettamente educativa. Compito della scuola è proprio quello di sviluppare in ogni ragazzo il senso della propria appartenenza ad una società civile di cui la scuola è espressione: nella misura in cui egli parteciperà in maniera seria e responsabile alla gestione di essa, diverrà, come diceva Don Milani, un cittadino sovrano. Si tratta di avviare un processo formativo che porti il ragazzo a sentirsi protagonista nella vita della scuola e contemporaneamente a saper trasferire questa dimensione partecipativa ad altri contesti sociali. Si tratta di sviluppare una sorta di “educazione alla socialità” in grado di promuovere la socialità attraverso il coinvolgimento critico del singolo nella cultura della propria gente e degli altri.
Per realizzare ciò la scuola deve avere un preciso orientamento che la ponga in una posizione ben definita sia riguardo alla propria progettualità didattica sia riguardo al contesto sociale in cui opera. Una scuola che voglia favorire la crescita di coscienze democratiche deve muoversi su un doppio binario: deve sviluppare al suo interno dinamiche di reale partecipazione da parte dei ragazzi alla gestione dell’organizzazione scolastica e alla sua progettualità, contemporaneamente deve stimolare in loro l’attenzione per la realtà esterna , affinché imparino a rapportarsi ad essa non in modo inerte e passivo ma da protagonisti, consapevoli di essere forze attive di cambiamento.
L’obiettivo fondamentale che deve dunque perseguire una scuola veramente democratica, è la formazione di personalità autonome, che valutino criticamente la realtà che li circonda e sappiano operare scelte consapevoli.
Una scuola che accoglie tutti i ragazzi e cerca di formare personalità autonome ed equilibrate, si pone in netto contrasto con le dinamiche di reclutamento di manovalanza perseguite dalle cosche mafiose.
In essa ogni ragazzo fa esperienza di una vita democratica reale, in cui ognuno di loro trova spazio per esprimere le proprie potenzialità, impara a conoscere se stesso, acquista sicurezza interiore, fa delle scelte alla luce dei valori ricercati insieme agli altri, rispetta le regole che la comunità si è data. Egli scopre inoltre di poter avere un ruolo nel contesto sociale in cui vive e per tale impegno si sente orientato e sostenuto dalla istituzione scolastica.
Le esperienze di democrazia vissute alimentano, dunque, la crescita di coscienze libere da condizionamenti mafiosi e capaci di operare nel sociale in maniera autonoma.
Il raggiungimento di tale obiettivo necessita di un lento e graduale cammino di formazione che deve essere perseguito con ostinazione da coloro a cui è affidato il compito educativo. Si tratta di abituare i ragazzi a sentirsi interpellati e coinvolti da tutto ciò che li circonda. Attraverso lo studio delle problematiche , la ricerca delle loro cause, il confronto sulle possibili soluzioni, i ragazzi interverranno sulla realtà esterna da protagonisti, consapevoli di poter avere un ruolo attivo su quei fenomeni sociali dei quali spesso sono stati soltanto spettatori passivi, a volte addirittura vittime.
È questo il senso delle esperienze di “vissuto democratico” [2] sperimentate all’interno della S.M.S.”Antonio Ugo” di Palermo: autogestione cooperativa,comitato dei ragazzi per i diritti, partecipazione sul territorio, esperienze di ragazzi che si sono assunti all’interno della scuola la responsabilità di gestire dei servizi utili per la comunità , di ragazzi che si sono resi presenti nel contesto cittadino e nazionale ricordando i diritti calpestati o dimenticati, di ragazzi che hanno dato vita ad organismi democratici, autentiche forze di cambiamento nel mondo degli adulti.

[1] Raffaele La Porta, La comunità scolastica, Firenze, La Nuova Italia, 1963

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[2] Per una descrizione più dettagliata delle esperienze citate cfr.: "Dove nasce la democrazia. Scuola ed educazione alla legalità" a cura di Pia Blandano edito dal Centro di documentazione della Regione Toscana.

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