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INCONTRI
INTERNAZIONALI
DI CASTIGLIONCELLO
quindicesima edizione

il bambino sregolato


alle relazionirelazioni





Regalami una regola. Adolescenti, istituzioni e processi educativi
Pino Centomani,
Direttore del Centro Giustizia minorile, Piemonte e Valle d’Aosta

(bozza non corretta)

Il rapporto tra adolescenti, istituzioni e regole mi fa venire subito in mente un’esperienza diretta, di qualche anno fa, nel carcere minorile di Milano.
Era un momento molto difficile, il rapporto fra minori e adulti era piuttosto teso, anche grazie ad alcuni episodi poco felici d’intervento adulto in situazioni di crisi.
Io ero responsabile del Progetto Beccaria, ovvero della struttura organizzativa messa in piedi per cercare di rendere l’esperienza carceraria meno distruttiva possibile, per i ragazzi ma anche per gli adulti che ci lavoravano.
Come tutte le mattine, alle 8,30, ero alla seconda porta, il crocevia interno dal quale passavano tutti i ragazzi e gli operatori per andare alle attività del mattino.
Erano momenti di grande agitazione, di voci, rumori, corse, scherzi; ma anche di grande energia, di attenzione, disponibilità.
Finita la baraonda iniziale, ebbi il tempo di verificare che tutti i ragazzi erano alle attività, gli insegnanti ed i formatori c’erano tutti, gli agenti erano già un po’ più tranquilli.
Ad un tratto mi resi conto che tutto stava avvenendo con una specie di sottofondo musicale .... (Rabeh e Daniele)
Stavo assistendo ad un miracolo! Quei due stavano scoprendo, senza saperlo ancora, la libidine della regola che permette!
Questi ragazzi stavano dicendo ai loro educatori che il problema era di riuscire a dividere (strategicamente) la dimensione strumentale da quella relazionale della Regola!
Ovvero, che risultava accettabile (anche a loro!) la regola che gli consentiva di esprimersi, di tirar fuori aspetti positivi e competenti di sé, di percepire un’autoefficacia in qualcosa di legittimo e apprezzato, facendo scivolare in secondo piano il fatto che ciò avvenisse all’interno di un laboratorio, con un adulto insegnante, che dettava il tempo.
Bene, se aveva funzionato con quei due .... nacque allora il Progetto RAP, con il suo Spazio Musica, allestito materialmente dai ragazzi e dagli operatori, insieme, che esiste ancora oggi, intatto, curato, ambito e rispettato dai ragazzi.

All’interno dei contesti istituzionali ci sono alcuni aspetti delle Regole e dei costrutti culturali ad esse collegabili, che assumono particolare importanza.
Ad esempio il binomio Regola-Responsabilità.
Proviamo per un attimo a pensare alla Regola in termini psico-sociali, in un’ottica costruttivista:

  • La Regola come espressione di una configurazione di costrutti culturali; precipitato di una specifica logica di costruzione della realtà; funzione interattiva strategica, che, tutto insieme, per funzionare, deve essere ri-conosciuta (compresa, condivisa) e percepita come individualmente (per Sé) ed interattivamente (per la relazione) utile.

Veniamo ora alla

  • Responsabilità (il senso di): capacità di riconoscere gli effetti (strumentali, relazionali, simbolici) di un comportamento come esiti di una propria scelta.
  • tale competenza psico-sociale è alla base della disponibilità a riconoscere ed accettare il significato delle sanzioni conseguenti.

La mancanza di questa competenza spiega, in qualche misura, come possa essere possibile, per molti adolescenti,

    • rispettare regole rigorosissime (amici-gruppo, amore, autocostruite attinenti alla “dignità personale”),
    • ed invece rifiutare regole di routine (con valenza di sottomissione personale e di ruolo)

Qual è il problema, allora. Il problema è che, come recita un antico proverbio cinese, “la gran parte di ciò che vediamo non è davanti, ma è dietro di noi”.
Come dire che nell’ambito di una determinata cornice, di un contesto con una forte identità e con una potente capacità connotativa dei diversi ruoli e dei rapporti ruolo-regola presenti al suo interno, tutti tendono a “vedere” sempre le stesse cose, quelle che ri-conoscono, che compongono la loro teoria sulla scena sociale che osservano, quelle per le quali hanno già le parole/definizioni “giuste”. Insomma, tendono a fare sempre la stessa esperienza.
Anche questo concetto merita un attimo di specificazione.
Esperienza, in senso psico-sociale, è l’effetto di una disponibilità a cambiare il proprio punto di vista su un aspetto/tema/problema, sulla base delle nuove informazioni che provengono dalla realtà, dalle situazioni che si stanno vivendo.
Ma sapete cosa può voler dire questo?
Che non sempre, non tutti, si possono permettere di fare esperienza!
Immaginate un adolescente.
Ci troviamo di fronte ad una persona con un numero piuttosto limitato di Esperienze in senso tecnico (o, magari, con una certa esperienza di un numero limitato di contesti e situazioni interattive). Il livello di competenza psico-sociale, ovvero della sua cognizione di sé e delle regole dei contesti a lui familiari, prodotta da tale curriculum vitae, lo pone in un rapporto piuttosto fideistico con quanto ha infilato nel suo zaino della conoscenza.
Lui conosce poche cose, ma ha bisogno di credere che quel che conosce sia Vero, che le idee che ne derivano siano Giuste, anzi, più giuste di quelle affermate da coloro che hanno perso la capacità di guardare al mondo con gli occhi di un adolescente!
Il guaio è che queste poche cose sono spesso molto collegate e coerenti fra di loro, formano un grumo compatto di convinzioni, reciprocamente indispensabili.
Dov’è allora la difficoltà?
Un pensiero sufficientemente complesso si alimenta di una molteplicità di informazioni e di ipotesi possibili di significazione di queste informazioni. Tale livello di complessità si può permettere di riformulare in continuazione (o almeno un certo numero di volte!) le proprie ipotesi, godendo addirittura della propria creatività intellettuale e guardando con una certa ironia alle proprie convinzioni precedenti.
Il pensiero di un adolescente, specialmente se in una situazione di disagio esistenziale, di ipostimolazione culturale ed affettiva, di monocromia esperienziale, più che di concetti ben distinti, espressi con parole chiare, è fatto di formule affettivo-cognitive ad effetto multiplo: che lo fanno sentire parte di qualcosa, somigliante a qualcuno, diverso da qualcun altro.
Ora, provate a pensare cosa accade, tendenzialmente, ad una persona in queste condizioni, se qualcuno cerca di sfilare una delle carte di base del suo fragile castello, o cerca di separare ciò che ormai si è strutturato come un impianto unico, un sistema di convinzioni dove ognuna serve a puntellare l’altra (Non so se avete presenti gli adolescenti quando, pur di seguire la logica di quello che hanno appena affermato, arrivano a delle conclusioni estreme, impossibili, impresentabili!).
Egli sente (il pericolo) di dover ristrutturare tutto, di ricominciare daccapo, di scomparire senza conoscere ancora la formula per riapparire.
E’ per questo motivo che nel lavoro istituzionale con i minori è molto delicata la fase di aggancio relazionale, quella in cui si pongono le basi affettivo-cognitive per l’esplorazione di quella sorta di extraterritorio relazionale, che quasi prescinde dal contesto in cui si trova, quello dei significati che si prendono a prestito per costruire un progetto!
Perché in quel momento si ha il permesso di entrare nel salotto buono, negli spazi dove ha sistemato gli indicatori del suo sentimento d’identità, dove sono raccolte e custodite le reliquie delle sue esperienze.
È lì che, se osserviamo con attenzione, scorgiamo gli oggetti simbolici del suo credo personale. E’ in quella dimensione che il ragazzo ti racconta com’è che ad un certo punto, o in certi momenti, ha scelto di rispettare regole diverse. Com’è che il suo senso di autoefficacia percepita si realizza in contesti e rispetto a comportamenti devianti.
Autoefficacia percepita (la sensazione di essere capace, di saper incidere ed essere visibile nella realtà), com’è difficile cambiarla!
In quelle stanze, vi assicuro, è difficile fare domande, chiedere il perché di quell’oggetto, di quella sistemazione, di quell’apparente disordine.
Ma è ancora più difficile trovare insieme un nuovo modo, accettabile da entrambi, di riordinare quel che c’è, di aggiungere qualche pezzo significativo, di costruire un nuovo spazio dove si possa sentire diverso eppure a casa sua!
Ecco allora che la relazione educativa si propone e funziona come una vera e propria palestra emotiva, un contesto sociale dove incontrare ruoli adulti in grado di costruire opportunità di crescita, spazi (affettivi e cognitivi) di sperimentazione.
Qual è, su questo piano, il problema?
Che questi ragazzi sono, probabilmente, poco abituati a sperimentare relazioni educativamente significative, con solidi adulti di riferimento.
Spesso e volentieri, per rimanere nella metafora, trovano a disposizione dei fitness center sgangherati, dove incontrano “allenatori” impegnati disperatamente ad assomigliare agli allievi, staffettisti che faticano a mollare il testimone e vorrebbero correre sempre la stessa frazione!
Oppure palestre professionali, dove un mondo di atleti professionisti non è disponibile a fare sconti ai pivelli, e li sottopone ad esercizi e a prove di forza e abilità ancora, per loro, insostenibili.
Ma vi sono anche altre esperienze problematiche.
Spesso i genitori mostrano una certa incapacità a “differenziarsi” dai figli, per cui, se esiste questa sorta di meravigliata simbiosi, il “no” educativo rischia di essere percepito come un’offesa biunivoca, una raffica di Kalashnikov contro la nuova e la vecchia personalità infantile in relazione,
contingentemente ed automaticamente complici contro il pericolo di un di stanziamento strategico, percepito piuttosto come l’inizio di una deriva irrimediabile.
Ed ancora, gli adulti di fronte a ragazzi/figli/studenti, specialmente se mostrano qualche talento vero, si fanno subito prendere dalla sindrome di Maradona.
Cos’è? E’ quell’effetto di fascinazione, quella paralisi creativa e reattiva che prende il giocatore normale di fronte al campione, alla sua intelligenza, all’imprevedibilità del suo gesto, delle sue scelte ….
Ed allora, tra le cose che si possono dire, a conclusione, ad esempio per i genitori e gli educatori (insegnanti, educatori, op. sociali in genere):

  • per i Genitori – giocare di più il ruolo tecnico – teorizzare sul proprio comportamento educativo
  • per gli educatori – giocare di più la dimensione personale, essere più persona e globalmente proporsi come educatore, magari specializzato in matematica.

Per il resto, nessuno sa, come noi adulti, che “il facile diventa difficile attraverso l’inutile”.

 

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