INCONTRI
INTERNAZIONALI
DI CASTIGLIONCELLO
quindicesima edizione
relazioni
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Regole ed eccezioni nella cooperazione educativa
Diana Cesarin, Segretaria nazionale MCE
(bozza non corretta)
Disambiguare
Il titolo del mio contributo è “regole ed eccezioni nella cooperazione educativa”.
Ho concordato il titolo in una delle tante telefonate con Angela intercorse durante la preparazione di questo convegno.
E’ quindi un titolo nel quale mi riconosco pienamente.
Tuttavia, nel preparare questo contributo, mi sono accorta di provare una sorta di imbarazzo, un leggero fastidio nel parlare di cooperazione educativa.
Ho imparato da Marianella Sclavi che quando si provano sensazioni di questo tipo c’è qualcosa da scoprire, perché l’imbarazzo sorge laddove entrano in contatto e spesso in conflitto premesse implicite diverse.
Anche stavolta la ricerca di Marianella Sclavi mi ha aiutata a capire.
Il fatto è che oggi parole come “cooperazione educativa” vengono utilizzate in modi e con significati assai diversi, possiamo trovarli ad esempio in molti documenti ministeriali.
Qualcuno ha parlato di “tradimento delle parole”, e un tradimento è sempre rottura di regole. Avverto perciò un conseguente bisogno di disambiguare le parole per poterci intendere, per comunicare il più possibile autenticamente rinnovando quel patto implicito che si istituisce tra parlanti che si vogliono ascoltare.
E sento l’esigenza di ripartire dal significato che ha e che ha avuto la “cooperazione educativa” nella storia del MCE che l’ha ripresa dall’opera di Freinet, l’ha contestualizzata nella realtà della scuola italiana, cercando via via di attualizzarla.
Mario Lodi nella “Lettera a Katia” posta nell’introduzione del “Paese sbagliato”, scriveva
“Distruggere la prigione, mettere al centro della scuola il bambino, liberarlo da ogni paura, dare motivazione e felicità al suo lavoro, creare intorno a lui una comunità di compagni che non gli siano antagonisti, dare importanza alla sua vita e ai sentimenti più alti che dentro gli si svilupperanno, questo è il dovere di un maestro, della scuola, di una buona società ….. di fronte ai bambini devi decidere come impostare il tuo lavoro: per asservire o per liberare”
Cooperazione quindi come costruzione di comunità, come alternativa alla “trasmissione” nella costruzione della conoscenza a partire dalla pratica delle forme comunicative: la conversazione, la discussione, la corrispondenza, la conferenza, la video conferenza ecc. In Freinet possiamo trovare le radici dell’individuazione della discussione come momento strutturante di messa in comune e confronto delle conoscenze e costruzione di conoscenze comuni: ciò che la ricerca oggi (in particolare per impulso di Clotilde Pontecorvo) indica come momento fondante dell’apprendimento. L’intuizione di fondo è quella di garantire, in classe, la cooperazione tra i partecipanti al processo educativo. Le tecniche cooperative sono strumenti che rendono necessaria la cooperazione, che creano le condizioni in cui il rapporto con l’altro (tra bambino e adulto, tra bambini) diventa un elemento indispensabile dell’apprendimento. Le tecniche cooperative sono le condizioni per mettere in comune conoscenze, competenze, abilità in vista di un fine comune e condiviso. Da soli, separatamente, ciascuno per conto proprio, non si impara ciò che si può imparare solo insieme.
La classe cooperativa è l’esperienza di vita che il bambino attraversa insieme ai compagni e al maestro, alla maestra: in essa agisce, e in essa riflette, ed entrambe le cose acquistano significato dall’esser fatte in cooperazione con gli altri.
I significati acquisiti in classe diventano linguaggio del gruppo e conoscenza personale di ciascuno. Oggi, nelle classi sempre più spesso entrano bambini portatori di esperienze, di culture diverse e quindi anche di sistemi di valori, di norme, di regole della vita quotidiana diversi. Bambini che la capacità organizzativa degli insegnanti deve portare a diventare membri attivi di un gruppo nel quale la cultura di ciascuno è contributo prezioso alla costruzione di una conoscenza comune, e questa a sua volta diventa patrimonio di ciascuno nelle forme individuali che egli si va costruendo.
Cooperazione educativa significa anche prevedere spazi, tempi, modi diversi di comunicazione, ricettività per modi diversi di esprimersi, accoglimento di un dire completo e complesso, fatto anche di sottintesi, di tracce, di intenzioni, di frammenti, di fili da raccogliere e intrecciare fra loro, perché nessun tentativo di comunicare vada perduto o sia ignorato.
Nel gruppo cooperativo trova spazio non un dire fine a se stesso, preoccupato delle forme dell’eloquenza, ma incisivo e dinamico, per discutere, per decidere, per progettare, per inventare, per raccontare, per “risolvere gli inevitabili conflitti che si creano nel gruppo.
Fare le regole
Ogni gruppo classe è parte di un’istituzione e, a sua volta, costituisce una istituzione, crea una istituzione.
Una classe cooperativa è un contesto dove è possibile esercitare la propria creatività sul piano estetico, poetico, manuale, musicale, gestuale, e anche su quello istituzionale.
Nulla è fissato rigidamente, l’organizzazione e le istituzioni sono al servizio della classe e dei suoi obiettivi.
L’esperienza delle classi organizzate cooperativamente dimostra che i bambini possono essere gli agenti responsabili della loro vita scolastica quando se ne offrano loro il diritto e i mezzi.
Una vera classe educativa è, per i bambini e per gli insegnanti, il terreno sperimentale dell’educazione alla democrazia.
E’ il “fare le regole” che caratterizza la classe cooperativa.
Regole funzionali e regole relazionali che procedono da una concezione educativa fondata sull’apprendimento per tatonnement, della libertà, della responsabilità, de diritti e dei doveri in una comunità che applica i principi dell’aiuto reciproco, della solidarietà, dell’autonomia, della cooperazione, dell’autogestione, tanto per la realizzazione di progetti comuni definiti. Insieme che per la realizzazione di progetti personali.
Regole per giocare, per lavorare in modo organizzato, regole che aiutano a imparare. In tempi in cui figli di migranti …. Quante regole della lingua ci sono nel “passamela”
E l’adulto non fa finta, ma rispetta queste regole, ne è il garante, non solo con i bambini, ma con i colleghi, col dirigente, coi genitori, con gli ispettori.
L’adulto è anche custode e garante di alcune leggi che preesistono alla costituzione del gruppo: quelle che regolano funzione e struttura della scuola e che, sostanzialmente, non sono negoziabili. A questo proposito, Jean Le Gal, un maestro del movimento Freinet francese, scriveva, qualche anno fa “Si tratta essenzialmente della legge del rispetto degli altri, della collettività, degli strumenti, dei materiali della cooperativa; della legge di aiuto reciproco.
Anche la legge di decisione collettiva in consiglio che è costitutiva di una classe cooperativa, è subordinata alla legge del rispetto.
L’anno scorso dopo il deterioramento di una serie di materiali e alcune aggressioni fisiche da parte di due ragazzi, abbiamo riprecisato la dialettica diritti-doveri e affisso i diritti e le proibizioni, elaborando infine una nuova legge “chi non rispetta le proibizioni perde i suoi diritti”.
E’ in una scuola cooperativa e democratica, che ha soppresso la punizione come castigo di una colpa commessa, in cui si dà ai bambini la possibilità di “fare la legge”, che il problema delle trasgressioni di decisioni prese in comune diviene decisivo: le multe stabilite dal Consiglio dei ragazzi per gli automobilisti.
Fin qui Le Gal, nel 1991.
La scuola del far finta
Viviamo oggi in una società nella quale concordemente gli studiosi rilevano un “deficit di etica pubblica”. Cosa che del resto è sotto gli occhi di tutti
In ciò un ruolo di non poco conto viene svolto dal familismo all’italiana (molto solleticato dalla filosofia della riforma) che distribuisce diffusamente la convinzione che tutto ciò che si fa nell’interesse familiare è legittimato.
Un altro elemento che contribuisce a determinare questo deficit è un diffuso far finta attraverso cui gli interessi personali vengono trasformati in “bene comune”.
Troppe volte la scuola insegna a far finta.
Troppe volte il far finta pervade prassi e comportamenti all’interno della scuola. E’ un rischio che la deriva aziendalistica e competitiva rende sempre più attuale. Quante volte per vendere meglio il prodotto scuola si dichiara quanto non corrisponde effettivamente alla realtà: si gonfiano gli organici, si diventa esperti nell’impostare progetti allettanti attraverso l’uso di grafiche accattivanti. Divenuti maghi del dichiarato a scapito dell’effettivo si stendono POF bellissimi, patinati, utili solo ad abbellire la vetrina dell’immagine, ma lasciando inalterato il lavoro d’aula...
Tuttavia la possibilità del superamento della scuola-apparato che si regge sulla sudditanza e sulla de-responsabilità è insita proprio nella scuola dell’autonomia, dove la responsabilità può diventare circolare, dove diversi soggetti sono chiamati a condividere il compito di realizzare il progetto formativo della scuola della comunità, dove si può educare alla cittadinanza e non alla sudditanza.
Cinzia Mion sviluppa queste considerazioni nell’articolo che si trova in cartellina e ad esso quindi rinvio per ulteriori approfondimenti, ma già da queste accenni scaturiscono alcuni interrogativi. Come o quando rendiamo esplicita l’etica che sta alla base del nostro lavoro di insegnanti ed educatori?
E’ accettabile che la parte minuta della nostra professione rimanga inespressa ed implicita?
E poi, in pectore, siamo educa tori rigidi, “fondamentalisti” , o secolarizziamo i nostri principi? Siamo per una pratica scolastica “amichevole”, o perdiamo la pazienza e ci scappano atteggiamenti rigidi, che poi odiamo?
Ed ancora: a che serve una regola? Chi deve applicarla e come? I bambini? L’adulto? Chi è garante della regola e della legge? Bisogna applicare le stesse regole a tutti i bambini, qualunque sia la loro età e il livello di maturità? E queste sono quelle eterne, diceva ieri Angela.
Domande da tenere sempre aperte, sempre attive nella riflessione sulle nostre pratiche educative.
E’ importante per insegnanti ed educatori riflettere sulle pratiche che si mettono in atto nei percorsi scolastici che pensiamo mirati alla educazione alla cittadinanza e non alla sudditanza.
E riflettere insieme, in modo cooperativo e co-responsabile, su come la micro-comunità della classe pian piano produce le sue leggi interne e si incontra con le leggi delle altre piccole comunità. Dentro il gruppo si può percorrere il passaggio dall’immediato attacco aggressivo alla espressione verbale dei motivi di aggressione. Si arriva così a scoprire la mediazione, la discussione collettiva seguita da una decisione comune, una sorta di democrazia diretta.
Il valore formativo di questo percorso è fondamentale e i bambini d’oggi lo attraversano soprattutto, se non esclusivamente, a scuola.
L’elaborazione del conflitto
Non sono buoni principi impossibili da praticare. Non è una perdita di tempo, come Lario Lodi aveva già ben chiaro parecchi anni fa.
Mario Lodi: “ Si tratta di analizzare con pazienza ogni aspetto della logica aggressiva, e ogni piccola guerra che scoppiava improvvisa ma che aveva cause remote e, come le guerre degli adulti, coinvolgeva spesso gli amici in difesa dell’aggredito o a sostegno dell’attaccante, di fronte a una maggioranza che assisteva, ignara dei motivi, alla lotta o alle minacce.
Certo, la scelta era impegnativa e seria perché non ci poteva limitare a sentire le diverse verità di qualche litigio, ma si dovevano analizzare tutti i litigi per capire le loro motivazioni, e, in una situazione già degenerata in lotta o minacce aperte, ricuperare alla pace consensuale, quando era possibile, per i contendenti. Era un lavoro proficuo da un punto di vista linguistico (esprimere correttamente e compiutamente il proprio pensiero in una situazione di tensione per la ricerca della verità è fortemente stimolante) anche se richiedeva molto tempo. Ma capii che era importante farlo senza compromessi: sorvolare, minimizzare, dimenticare significava che la violenza poteva continuare.
Valeva la pena di farlo e ne fui subito convinto ai primi casi, quando constatai come discutere di un caso concreto richiede l’esercizio del pensiero, della memoria, di capacità critiche e dialettiche. Sviscerare una questione è un esercizio simile alla risoluzione di un problema matematico o scientifico. Ascoltare le diverse opinioni dei protagonisti che difendono il loro operato è imparare la relatività delle cose umane, è superare il dogmatismo dell’unica verità, è studiare e capire le persone nei loro momenti di debolezza e di tensione, aiutarli a uscirne è praticare la solidarietà.
Il momento della soluzione, quando veniva, era magnifico. Ritrovare l’equilibrio interiore e la pace con gli altri è uno dei momenti più belli che si vivono a scuola e nella vita.”
Così Mario Lodi.
Regole che cambiano
Ricordo un intervento di Domenico Canciani, del MCE, insegna in una scuola media di Mestre. Nel 2002, nell’ambito di un seminario su “Etica e scuola”, promosso da Cooperazione Educativa. Raccontava Domenico “Nella mia classe c’è il motto U.C.T., quando noi andiamo in gita bisogna dire il motto uct: uniti, civili, tranquilli ... è un’etica provvisoria, nella logica di renderla visibile perché se loro non la vedono, non la possono discutere, non la possono interiorizzare, non la possono distruggere, non la possono cambiare.
Rendere visibile è il nostro mestiere.
Le regole cambiano, ma l’imperativo di cercare queste regole e di farle anche provvisoriamente comuni e condivise, dà il senso del nostro stare insieme”.
Anche rompere le regole, opporsi, trasgredire come dice Domenico sono momenti importanti e produttivi nella formazione delle persone. Purché intorno vi siano adulti ed educatori capaci di rinegoziare quelle regole e quei limiti o di riconfermarli se necessario, senza abdicare al proprio ruolo, senza ridurlo all’esercizio dell’imposizione.
Franco Lorenzoni, maestro MCE, fondatore e animatore della casa laboratorio di Cenci, nella stessa occasione, ha messo in evidenza il valore positivo della trasgressione, da lui sperimentata nell’incontro con persone come Emma Castelnuovo, Nora Giacobini, Jerzy Grotowsky, Alex Langer che, in campi di ricerca e di impegno civile diversi ma interrelati come la matematica, la relazione educativa, il teatro, l’impegno sociale, rappresentando un ordine diverso, lo hanno aiutato . a pensare al mondo in un modo meno consenziente e a dare più senso e significato alla scuola.
Ieri l’assessore-musicista ha ricordato qui che fare musica è conoscere e padroneggiare talmente bene le regole da poterle rompere, è quello che mille volte fanno i jazzisti, i poeti, gli artisti.
In ogni errore nasce la possibilità di una storia
Mi avvio verso la conclusione, ma non vorrei perdere l’occasione di riflettere su un particolare caso 1 di trasgressione, o per meglio dire, di venir meno, di non applicazione delle regole: il caso I dell’errore. E, più precisamente, sull’insegnamento di quel grande maestro che è stato Gianni Rodari in merito all’errore creativo. Attraverso una messe ricchissima di esempi, di stimoli, di piste di lavoro Rodari ci ha regalato la possibilità di usare l’errore.
Diventando turisti della fantasia che esplorano il paese di “Lamponia” inventato da un errore di battitura di “Lapponia”; usando gli errori ortografici per dar luogo a ogni sorta di storie comiche e istruttive; sbagliando le storie, facendo un’insalata di favole o reinventando le fiabe alla rovescia.
In ogni errore nasce la possibilità di una storia, dice Gianni Rodari.
Può essere utile usare questo insegnamento anche per affrontare errori di altri tipo, sregolatezze, trasgressioni, irregolarità?
Marco Rossi Doria, il maestro di Napoli che si occupa di drop-out, di quei ragazzi cioè che con le regole e l’ordine della scuola hanno avuto un impatto tale o un’estraneità tale da risultarne espulsi o dispersi, conosce bene la strada che da un errore, da una situazione di rottura delle regole, porta a una storia o quanto meno a una possibilità di comunicazione. E lo racconta nel suo libro “Di mestiere faccio il maestro” del quale vi propongo qui la lettura di qualche frammento tratto da due paragrafi “cani” e “cattiveria”.
Tempo, dice Marco Rossi Doria. Come non pensare al tempo ridotto, frantumato, svuotato della scuola del ministro Moratti. Tempo, ascolto, capacità di partire davvero da ciò che è, sa, dalla sua esperienza per ripristinare le condizioni della comunicazione, dell’apprendimento, del riconoscimento della funzionalità di alcune regole, della possibilità nella relazione con gli di essere protagonisti responsabili.
Ecco, nel discutere spesso concitato che si fa intorno ai provvedimenti di riforma scolastica dell’attuale governo, un discutere spesso irrispettoso delle regole, perfino di quelle della buona educazione, sarebbe utile se entrassero queste problematiche, che mi sembrano invece un po’ sbrigativamente liquidate con la reintroduzione del voto in condotta nonché oscurate dall’enfasi sulla personalizzazione o su altri aspetti.
Per tenere davvero al centro il bambino, la bambina e aiutarli a interiorizzare le regole attraverso le quali si cresce e si impara insieme agli altri, ma anche a inventare e a crearne di nuove per rinnovare l’esercizio della cittadinanza, per costruire la consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri e anche del fatto che i diritti o sono di tutti o sono dei privilegi.
Riferimenti bibliografici
Marianella Sclavi, “Arte di ascoltare e mondi possibili”, Ed. Le vespe
Mario Lodi, “Il paese sbagliato”, Einaudi
Mario Lodi, “La scuola e i diritti del bambino”, Einaudi
G. Cavinato, L. Canetti, “I fili e i nodi dell’educazione”, La Nuova Italia
Movimento di Cooperazione Educativa, “Freinet. Dialoghi a distanza”, La Nuova Italia
G. Boccaccini, L. Pala, N. Vretenar, “Pace scommessa utopia”, La Nuova Italia
F. Oury, A. Vasquez, “L’educazione nel gruppo classe. La pedagogia istituzionale”, ed. Dehoniane
Cooperazione Educativa n.3/2002, “Etica e scuola”, Ed. Junior
A. Busato, “La terza strada”, In CE n.3/2002
G. Rodari, “Grammatica della fantasia”, Einaudi
Marco Rossi-Doria, “Di mestiere faccio il maestro”, Ed L’ancora
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