INCONTRI
INTERNAZIONALI
DI CASTIGLIONCELLO
quindicesima edizione
relazioni
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Il bambino sregolato
Angela Nava Mambretti, Presidente nazionale Cgd
prire un incontro come quello di Castiglioncello con la sua cadenza biennale, con il suo essersi consolidato nel tempo e nell’immaginario e quindi divenuto fonte di aspettative per molti e di riti, comporta al di là di ogni liturgia, una forte dose di implicazione emotiva.
Questo incontro in particolare; quindicesimo nella sequenza ordinativa, ma che cade a vent’anni dal primo, ha in sé una forte valenza simbolica che lega fortemente passato, presente, progettualità futura. Oggi, infatti, sono certa di poter affermare che le tre dimensioni temporali si intreccino strettamente non solo perchè rivedo gli amici di sempre ed insieme i nuovi, che hanno seguito il CGD in questo tenace percorso di ricerca, che non vuole rassegnarsi all’idea di un’esistente dato come immodificabile e che privilegia il dubbio ed il pensiero critico nel ragionare sul patto di responsabilità che con le generazioni che mettiamo al mondo dobbiamo stipulare, ma soprattutto perché siamo qui grazie anche all’ostinazione lungimirante di un Ente Locale che sull’infanzia continua ad investire. A tutti loro, amministratori e personale, un grazie che nasce da riflessione politica e non dall’osservanza delle regole di un galateo consolidato:siamo consapevoli, in tempi di finanziarie irrispettose ed irridenti rispetto ai diritti ed ai bisogni dei cittadini, della difficoltà che un’amministrazione comunale ha a progettare e a garantire qualità dei servizi ed ascolto; siamo altrettanto certi che nel nostro paese in questa fase più che nel passato, gli enti locali si connotino come luogo in cui decisori politici e cittadini possano praticare un nuovo terreno di incontro democratico. Possano dare gambe ad una corretta pratica della sussidiarietà che non può, come la visione politica dominante vuole, consistere nel colmare il vuoto delle politiche nazionali. Essi devono pensare a “città affettuose”, a città sostenibili coniugando progetto e programma e rilanciando lo strumento della partecipazione non come condizione aggiuntiva, ma come elemento imprescindibile nella società complessa in cui viviamo.
Per dirla con Bauman, un tentativo di ricostruire il terreno di una nuova agorà come luogo in cui si vengono a ricomporre identità e interessi per creare regole e istituzioni democratiche nelle quali l’individuo si possa riconoscere attore nella vita sociale. Anche di questo nuovo terreno di regole, come tessuto connettivo di una democrazia oggi in crisi, vogliamo occuparci nel nostro Bambino, per il nostro Bambino.
Il nesso tra passato e presente è oggi reso più evidente dall’assenza di chi non c’è più, ma che sentiamo fortemente con noi. A Marisa Musu è dedicata all’interno del convegno e parallelamente ad esso una giornata di festa e ricordo; ma è lo stesso bambino nella sua ventennale esistenza, è l’associazione da lei fondata, ancora oggi fondamentale nel tessuto dell’associazionismo laico italiano, a confermare che “giusto era il segno” da lei perseguito quasi trent’anni fa.
Ad avviarci alla riflessione sul binomio regole-libertà è stata proprio Marisa, quando nel congedarsi a Castiglioncello nel 2002, ci aveva ricordato l’importanza di ragionare sul bambino libero, ma in una dimensione di solidale generosità. Il binomio regole e libertà ci è apparso subito come carico di contraddizioni e di aporie irrisolte. Quale la relazione tra un’educare personalità libere e critiche come vorremmo che i nostri figli fossero e la costruzione delle regole? Ed ancora, come con i più piccoli e tra noi adulti praticare e ragionare di libertà, oggi, quando di libertà si parla da parte di correnti culturali e movimenti politici che si autodefiniscono liberali, o sono chiamati neo liberali, ma sono solo fautori del libero mercato concepito come una sorta di bene supremo che promuove un’idea di libertà destinata a confondersi con la semplice assenza di regole, con quella che Kant chiamava la “libertà selvaggia”? Produttori di una retorica della libertà come liceità sregolata sono proprio quei poteri forti che attraverso l’allentamento dei vincoli normativi e dello spirito pubblico mirano a conquistare ogni spazio delle relazioni sociali, ad attrarre nella sfera del mercato ogni tipo di beni, anche quelli protetti dalle norme costituzionali, i diritti fondamentali. Anche i diritti di libertà.
A rendere più complesso il quadro di riferimento è la constatazione che il momento attuale è dominato dall’insicurezza, dalla paura: l’ideologia della sicurezza come bene primario da salvaguardare in uno stato d’emergenza planetario può diventare criterio per giustificare ogni genere di limitazione dei diritti fondamentali. Tutto ha un prezzo: libertà contro sicurezza, anche a costo di rendere credibile ciò che è incredibile e cioè che si possa diffondere nel mondo la libertà con l’occupazione militare o instaurare la democrazia con la coazione, l’autonomia con l’eteronomia. Indebolire il sistema democratico dei diritti e delle garanzie in nome di un sistema di valori per la cui difesa ed esportazione viene invocato il ricorso alla forza rischia di restituirci un vincitore che ha assunto le sembianze dell’avversario. Un avversario per il quale il diritto internazionale coincide con la dimensione globale ed universalmente condivisa delle sue regole. Né la riflessione su regole e libertà può dimenticare nuovi e più raffinati controlli che la rete informatica consente:siamo uno, nessuno e centomila, molteplici come le finestre che possono essere aperte sullo schermo. L’unità della persona viene parcellizzata, dispersa in dati personali ed in luoghi diversi. L’arricchimento di possibilità che la tecnologia ci offre, trascina ognuno di noi in un flusso di informazioni: rischiamo di perdere la nostra corporeità per trasformarci in una password. Dalla seduzione della sicurezza elettronica non è immune il nuovo genitore, se è vero che di recente ha ottenuto ammiccamenti e consensi (non sappiamo se anche successi di vendita) una sorta di braccialetto elettronico, un guinzaglio elettronico per dirla con Rodotà, da far indossare ai nostri bambini per sapere sempre dove essi siano e rispondere così all’onnivoro bisogno di rassicurazione che abbiamo noi adulti, divenuti incapaci di sopportare il rischio non solo dell’autonomia, tappa ineluttabile della crescita, ma addirittura del loro allontanamento temporaneo da noi. Certo non è estraneo a questo atteggiamento diffuso il dato inquietante sulla natalità in Italia, ultima anche tra le nazioni europee: i bambini sono e cominciano ad essere percepiti come una merce ormai rara e preziosa. Percezione e\o consapevolezza che poco stanno incidendo sulle politiche nazionali per l’infanzia che ad essa destina ancora solo lo 0,9% delle sue risorse. Nel corso del nostro incontro ci aiuteranno gli esperti a capire quale nesso e se nesso c’è tra investimenti avari e miopi e lo stesso tasso di natalità, ciò che sicuramente rileviamo è la proliferazione di atteggiamenti culturali complessivi di chiusura e ripiegamento, autodifensivi, individualistici, che bene si sono coniugati con la lungimiranza di un mercato che fa del bambino e dei prodotti a lui destinati un consumatore d’eccellenza. Bambino appunto come gioiello prezioso da mettere in cassaforte, perché sia preservato da furti e sciupii, perché non cresca insomma. Non possiamo allora affrontare il tema della libertà e delle regole senza toccare il nodo dell’autonomia. A riflettere su di essa ci hanno aiutato le parole di Iacono: “Uscire fa paura. Abbandonare il luogo sicuro familiare fa paura. Uscire dall’utero materno e trovarsi in un luogo estraneo, luminoso, sconosciuto….Chi ha detto che uscire dalla minorità è meglio che restarvi? Quali sono i vantaggi? E’ preferibile una vita sicura o una vita libera?” E dato per scontato che si risponda una vita libera, rimane il problema della relazione tra chi detiene il potere educativo ed i giovani. “I genitori restano genitori e i figli restano figli” ma “dovrebbe essere proprio il mutamento lo scopo di una relazione tra genitori e figli” ed ancora “l’obbedienza blocca l’uscita dalla minorità. L’autonomia implica la facoltà di disobbedire, ma sarebbe paradossale che fosse colui che si trova più in alto nella scala del potere a decidere il momento del passaggio dall’obbedienza all’autonomia”. Non elogio della disobbedienza quindi, della sregolatezza, ma consapevolezza che “l’obbedienza piuttosto che essere in armonia con la libertà, non può che esserne in tensione”. Peraltro dalla stessa parola autorità derivano aggettivi assai diversi come autorevole ed autoritario, tra cui scorre un fiume di significati e di pratiche educative. Ma a manifestare una sorta di stanchezza pedagogica appare proprio il genitore che ha rinunciato consapevolmente all’autorità, memore dei danni che un’educazione autoritaria produce. Assistiamo spesso, infatti, ad un atteggiamento di resa da parte dei genitori, ad una generalizzata incapacità a dire di no, il che significa rinunciare ad essere adulto di riferimento pur di non dover sopportare in alcun modo il malessere di dare anche quella piccola frustrazione. Ma c’è di più: questa rinuncia porta ad un’ulteriore forma d’abdicazione: quella ad essere se stessi con le proprie convinzioni, passioni, ideologie, debolezze, subordinando il proprio essere persone reali all’ansia di evitare per i propri figli ogni genere di conflitto. Questo atteggiamento da un lato consegna, senza lottare, i propri figli alla cultura dell’omologazione, alla moda del momento e alla legge del mercato, dall’altra ha riflessi molto preoccupanti sugli stessi processi di identità, se viene a mancare quella dinamica di accettazione\contrasto con le figure di riferimento, che è la strada obbligata del divenire soggetti autonomi. Crescono e ne cresce il consenso intorno, le pubblicazioni che ricordano al genitore i no che fanno crescere, i si fa come dico io come enunciano titoli destinati ad essere o già divenuti best-sellers tra un pubblico sempre più ampio. Cresce l’ambizione statistica di misurare i fenomeni di bullismo, raggruppando a volte indistintamente sotto questa categoria tutti i fenomeni di prevaricazione, prepotenza, ma anche di devianza e disagio rispetto ai quali le forme di potere che gli adulti esercitano (penso a quelle della scuola registro, voto, sanzione, espulsione) rivelano la loro inefficacia. Cresce l’allarme verso nuove modalità del divenire donne che rompe con molti stereotipi. Aggressività e pratiche sessuali precocissime tra le giovanissime, come anche il recente film Thirteen palesa, ci svelano romanzi di formazione a noi ignoti. Cresce la voglia di contenimento se è vero che la reintroduzione del voto di condotta che confina, determina, definisce atteggiamenti, emozioni, demotivazioni, ritardi che si intrecciano strettamente con il processo di apprendimento ha incontrato il favore della maggioranza degli educatori -genitori ed insegnanti. Si diffonde la geremiade sui ragazzi sregolati appunto, non necessariamente violenti, trasgressivi, socialmente disordinati o pericolosi, ma solo incapaci di riconoscere l’esistenza di regole e perciò di rispettarle. Sembra che non siano al corrente dell’esistenza di un galateo sociale diffuso che silenziosamente regolamenta gli scambi sociali, le precedenze, l’uso dei tempi, delle parole, degli spazi sociali. E’ come se fosse cambiato un dispositivo strutturale, funzionante da generazioni che omogeneizzava il significato dei comportamenti sociali, come se la continuità della trasmissione tra generazioni fosse stata interrotta. Se queste considerazioni non corrispondono, come è nelle nostre intenzioni, a fare solo da cassa di risonanza ad un common sense sempre più esteso, è necessario ripensare ai luoghi, reali e simbolici, in cui è possibile praticare, condividere,e negoziare e scrivere, un sistema di regole con le nuove generazioni. La strada, la città, la scuola, le istituzioni in genere. L’idea di una genitorialità sociale, di una genitorialità diffusa che da sempre perseguiamo, diventa sempre più necessaria in una società come quella italiana in cui, come l’indagine del CENSIS afferma,il 40% delle famiglie denuncia la difficoltà a tenere il ritmo con altre agenzie educative e lamenta la difficoltà a trasmettere valori positivi, mentre ben il 64% denuncia la solitudine delle famiglie rispetto alle istituzioni sociali. Genitorialità diffusa anche come antidoto all’individualismo che si è insinuato nelle persone, nelle relazioni sociali, negli stili di vita e di pensiero e di cui non ci siamo accorti in questi anni. A questo individualismo assunto come paradigma della modernità ci siamo un po’ tutti subalternamente piegati; la crisi dei luoghi di riproduzione sociale, delle identità collettive, della politica come passione civile, hanno fatto il resto. Negli ultimi decenni abbiamo assistito al passaggio da una società delle regole condivise a una società dei rischi individualizzati, da una società della continuità e della stabilità a una società del mutamento discontinuo. Ripensare in primis alla scuola, partendo allora dalle persone e non dagli individui: questa è la sfida da assumere sapendo che la scuola è allora un versante di una battaglia più vasta che riguarda il mondo del lavoro, dei diritti, delle istituzioni. Ma è un versante decisivo perché nell’esperienza universale della scuola prendono forma i diritti delle persone; è nella scuola che parole come “ solidarietà e comunità” possono diventare situazioni concrete.
Da qui, da Castiglioncello ribadiamo il nostro No alla riforma della scuola che si avvia ad essere operante. Non solo perché siamo vicini ai movimenti diffusi nel paese che in questi mesi si sono opposti ad una scuola avara di risorse e sprezzante rispetto ai tempi dei bambini e alle loro diversità, non solo perché non possiamo che salutare con favore un movimento diffuso che ribadisce che la scuola appartiene al paese e quindi ai cittadini tutti e non è e non può essere appalto -per delega- degli addetti ai lavori, ma perché sentiamo che dietro questa idea di scuola si cela un’idea della politica e della società che abbandona i suoi cittadini all’individualismo e alla competizione di un mercato senza regole. Proprio mentre si afferma la loro centralità, si abbandonano i bambini di questo paese, alle scelte degli adulti e dei loro bisogni, non si scrive un patto con le nuove generazioni, ma abdicando alla responsabilità sociale li si affida ad adulti atomizzati e soli. (citare relazione Persichella) Credo che la solitudine sia oggi una categoria che non attiene più e soltanto all’osservazione psicologica o letteraria, ma diventi categoria politica come condizione che in un patto sociale disatteso caratterizzerà sempre di più i cittadini, i più deboli, di questo paese.
Diciamo quindi no ad una scuola sregolata. E non certo perché nostalgici di un modello centralistico e statalista, ma perché capaci, con chi ci vorrà affiancare, di progettare la scuola che vogliamo: scuola che deve rinnovare la mission tradizionalmente affidatele. Quella cioè di formare un cittadino nazionale. Oggi è necessario porsi obiettivi di formazione per un cittadino europeo, per un cittadino planetario; è necessario assumersi la responsabilità non solo delle opportunità di base e per tutti, ma anche degli esiti. Compito assai più complesso dell’offrire qualche ora di lingua straniera o di informatica come strategia dell’inclusione sociale. (eliminando nel contempo ogni accenno alla teoria evoluzionistica!!).
Abbiamo bisogno di costruire una democrazia cognitiva che spezzi la spirale antidemocratica del progresso tecnico-scientifico attuale, che emancipi la maggioranza di uomini e di donne dall’ignoranza indotta a cui sono stati assoggettati dall’esplosione mediatica, che contribuisca a creare un’attenzione informata e consapevole sui grandi temi che lo sviluppo delle tecnologie di manipolazione della vita e della natura pone oggi al cospetto del mondo.
Abbiamo bisogno di ripensare a nuove regole per un’integrazione necessaria, ad una riflessione nuova sulla laicità cui il dibattito francese ha fatto da apripista. A questo compito ci chiama non solo la Costituzione ma anche e direi soprattutto la necessità di individuare i terreni per un’integrazione che vada al di là della generica tolleranza. Sembra infatti che il termine tolleranza sia usato nella sua accezione peggiore o solo etimologica: sopportare o mal sopportare tutto ciò che si crede insidioso rispetto ad un’identità nazionale oggi, in tempi di ibridazione identitaria, più che mai sospetta. Problemi che solo fino a ieri ci sembravano lontani ed estranei, ma che già la cronaca degli ultimi giorni ci avvisa diventeranno all’ordine del giorno se non sapremo affrontare, in tempo e a tutti i livelli, le questioni che la presenza dell’altro porta con sé. Senza toni da crociata.
Paradossalmente le due opposte idee di laicità dello Stato in Italia e in Francia producono effetti simili sulla libertà dei cittadini. In Italia la prevalenza storica e numerica di una confessione religiosa porta ad identificare i suoi simboli con l’identità nazionale e chi non condivide la visione sacrale della vita nascente viene trattato, ora anche per legge, come criminale.
In Francia la difesa, sia pur sacrosanta, della laicità dello stato nega ai suoi cittadini di esprimere le proprie appartenenze significative, quelle religiose in particolare. Dibattito complesso, ma al fondo del quale resta un problema di base che bene Chiara Saraceno recentemente ha messo in luce in un articolo dal titolo Il velo no, il piercing si?:” Come potranno tutte e tutti imparare il rispetto delle reciproche differenze se non possono vederle e comunicarle nello spazio pubblico?”.
Non abbiamo risposte precostituite. Insieme ai relatori vogliamo intraprendere un percorso di riflessione su questi temi e nei workshop, che da sempre costituiscono le gambe dei nostri incontri, proporre buone pratiche e buona scuola, non perché esempi lontani e paradigmatici di un’eccellenza riservata a pochi, ma perché siamo sicuri che nel nostro paese sono assai numerose le luci educative, scarsa invece la rete connettiva che consenta che divengano sistema diffuso.
Nel lasciarvi ai lavori di questa giornata vi consegno un’immagine che ci interroga drammaticamente come genitori, come educatori come cittadini: è quella del quattordicenne fermato con una cintura kamikaze a Nablus e pronto a farsi esplodere. Troppo spesso armi pesanti sono imbracciate da braccia troppo esili. Se l’inferno quotidiano palestinese, immensa prigione per tre milioni di individui, spinge anche i ragazzini ad essere disponibili, chiunque usi questa disponibilità diventa speculare alla logica dell’occupante che pure non ha esitato a sparare su ragazzi armati di sassi.. E’ un mondo che uccide i propri bambini e cancella con essi il diritto alla vita. Salviamo i ragazzini ! Salviamoli rendendo fertile la loro spontaneità, facendo convivere la nostra memoria con la loro libertà, difendendo entrambe da chi vorrebbe cancellarle.
Scriveva Marisa Musu nel 2000, concludendo l’introduzione alla storia della ns. associazione: ”Oggi più e meglio di trent’anni fa, abbiamo la consapevolezza che essere genitori in Italia, pur con tanti problemi ed angosce, è un privilegio rispetto alla condizione dei padri e delle madri dell’India, dell’Angola, del Brasile, di due terzi del mondo. Proprio di fronte alle dimensioni cosmiche del problema, abbiamo coscienza di aver fatto poco, pochissimo, un granello di sabbia, poche gocce d’acqua……Ai genitori giovani che hanno preso il nostro posto lasciamo questa consapevolezza e affidiamo questa volontà”.
Buon lavoro a tutti. |