INCONTRI
INTERNAZIONALI
DI CASTIGLIONCELLO
quindicesima edizione
relazioni
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“Ragazzi, imparate a fare le cose difficili!”
Francesco Paolo Occhiogrosso, Presidente Tribunale per i minorenni, Bari
(bozza non corretta)
Pasquale Laricchia, il giovane barese divenuto opinionista nello show di Maurizio Costanzo grazie alla sua partecipazione al “Grande Fratello”; è probabilmente l’espressione più recente del mito della facilità, del modo in cui si può raggiungere facilmente il successo, percorrendo non la lunga via dello studio, del duro lavoro e dell’impegno, ma la scorciatoia del cogliere al balzo l’occasione fortunata di una trasmissione televisiva. Le manifestazioni del mito della facilità si sono negli ultimi tempi moltiplicate: dalla febbre del Superenalotto, ispirato al sogno di poter divenire multimiliardari, giocando una schedina di pochi euro, all’assalto ai provini televisivi per selezionare le veline o le aspiranti pop star, che riempiono piazze e teatri, alla pubblicazione di calendari, che è divenuto il modo più sollecito per giovani attrici in via di affermazione per consolidare la loro visibilità. Questa logica si è poi addirittura estesa anche a persone, quali gli anziani anche ultraottantenni, che certamente non puntano a realizzare in tal modo un traguardo della loro vita, ma che sono spinti da altre motivazioni, quali il protagonismo anche per una sola serata, anche per pochi minuti. Abbiamo così avuto trasmissioni come “le Velone”, nelle quali alto è stato il rischio per chi vi è intervenuto che non si ridesse con loro ma su di loro; che non ci si divertisse insieme a loro, ma alle loro spalle. E si è rischiato poi di superare i limiti del buon gusto e soprattutto del rispetto dovuto alle persone anziane, come in quella trasmissione alquanto patetica dal titolo “Supersenior”, una specie di “Grande Fratello della terza età” (dodici vecchietti tutti ultrasessantenni - 6 uomini e 6 donne - che dovevano coabitare per 15 settimane in una stessa “casa”).
Dietro tutto ciò non si può non segnalare l’influenza della “cultura” televisiva, ispirata a logiche ben diverse da quelle dell’imparare a fare cose difficili, suggerito da Rodari.
Il mito dell’audience a tutti i costi induce a premiare la notorietà comunque ottenuta, anche a prezzo della morte, e ad esaltare come valori comportamenti che tali non sono.
Emblematica in questo senso è stata la gestione televisiva della vicenda di Erika e Omar, che Livia Locci, il sostituto procuratore minorile di quel processo, ha definito una “autentica barbarie mediatica”: sia “Porta a Porta” che il “Maurizio Costanzo Show” non si sono limitati ad analizzare la vicenda ma l’hanno discussa, esaminata, sezionata pezzo per pezzo; nessun profilo è stato trascurato: sono stati sentiti e risentiti investigatori, criminologi, giudici, opinionisti per analizzare e sezionare fatti e persone come ad una moviola televisiva. Con grande cinismo è stata gestita, nella logica esposta, la questione delle piccole vittime decedute: il piccolo Gianluca, il fratellino di Erika, così come il piccolo Samuele, il bimbo di Cogne, e di Desirée a Lero: le loro immagini hanno continuato per mesi ad essere diffuse con mancanza di ogni umana pietà, di quella pietà che dovrebbe portare ad assicurare anche a quelle immagini la stessa tutela dovuta ai minorenni viventi, ma che viene invece loro negata, proprio perché sono morti, perché non sono più soggetti di diritto.
Ma il messaggio di fondo che attraverso tutto ciò è passato è che la notorietà è un valore, la notorietà raggiunta comunque e a qualunque prezzo. E Bruno Vespa, aldilà di suoi facili moralismi verbali, è stato un maestro di questa cultura, quando ha fatto partecipare ad una sua trasmissione il presunto. nuovo fidanzato dio Erika, pagando gli svariati milioni di lire per questo suo intervento ed inducendo l’opinione pubblica più avveduta a chiedersi quanto sarebbe stata pagata un’intervista a Erika. Anche qui il cinismo” dello scoop a tutti i costi induce a riflettere sul fatto che anche il matricidio, anche la notorietà che deriva dall’aver sterminato la propria famiglia può dare successo e lauti guadagni!
Ma a questo punto bisogna fermarsi per dire che non è questo il pensiero che l’umanità ha seguito per realizzare il suo progresso. La storia è piena di antichi proverbi che sollecitano a seguire strade difficili: dal proverbio latino “per aspera ad astra”, al motto “quisque faber fortunae suae”, che Sallustio attribuisce ad Appio Claudio Cicco, fino al “fatti non foste per vivere come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” dell’Ulisse dantesco. E’ attraverso le difficoltà che si arriva sia alla realizzazione personale che al progresso dell’umanità nelle scienze, nell’arte, nello sport, ma anche per conseguire la pace.
Ed in questa logica i miti non sono quelli della facilità, i nostri miti sono altri: sono don Stefano Gorzegno, l’umile parroco di Boiano morto per salvare sette bambini che rischiavano di morire affogati in mare, Iqbar Masih, il piccolo pakistano ucciso per liberare i bambini dalla schiavitù della mafia dei tappeti, e Annalena Tonelli, la dottoressa italiana indicata, come la nuova madre
Teresa e uccisa in un angolo dimenticato della Somalia; sono i milioni di volontari delle tante associazioni che, in silenzio e con gioia, sacrificano tempo ed energie per manifestare quotidiana solidarietà ai più bisognosi. Allargando la prospettiva, è tale anche quello che da qualche tempo viene definito il “popolo della pace”, quella parte dell’umanità, che in tutti i Paesi ha manifestato e continua a manifestare per la pace nel mondo e quindi per la ricerca delle soluzioni più difficili, frutto di mediazione e di tolleranza. Coloro che vogliono un modello di società antitetica a quello che ispira la cultura della cd. guerra preventiva, quello cioè attuato dalla Commissione sulla Verità e la Riconciliazione istituita in Sudafrica per la definizione dei crimini contro l’umanità commessi tra gli anni ‘60 e ‘90, quella che ha utilizzato la mediazione-riparazione come paradigma nuovo nella gestione dei conflitti di qualsiasi natura e di qualsiasi pericolosità; quello voluto da due leader di statura mondiale, da Nelson Mandela e da Desmond Tutu.
Ma approfondendo il discorso, va sottolineato che il discorso relativo al rapporto facilità-difficoltà è più complesso di quanto non appaia a prima vista. Tutti ci rendiamo conto, ad esempio, di quanto oggi sia meno facile per i ragazzi gestire situazioni difficili, come per esempio affrontare lo stress di un esame o un impegno comunque oneroso. Che la fragilità di tanti minorenni è tale che abbiamo avuto, casi di ragazzi suicidi per un cattivo voto o per un rimprovero del genitore o dell’insegnante. Che tutto ciò non può non pesare sull’atteggiamento della famiglia.
E allora i quesiti da affrontare sono molteplici e si possono così sintetizzare: 1) la facilità è una scelta o la risposta a difficoltà personali?; 2) l’esortazione della poesia di Gianni Rodari: “Bambini, imparate a fare le cose difficili: dare la mano al cieco, cantare per il sordo...”, con la bellissima chiusura: “liberare gli schiavi che si sentono liberi”, è davvero diretto ai bambini? O sottende un discorso critico sul modello di educazione e sul cambiamento intervenuto nella relazione genitori-figli? 3) E questo cambiamento ha inciso anche sul rapporto scuola-genitori-figli avvenuto negli ultimi decenni?
Nella prospettiva della facilità come scelta si può segnalare la tendenza generale al permissivismo educativo cui sempre più ci si è andati adeguando. Mentre in passato i genitori solidarizzavano con gli insegnanti nell’invito a fare studiare il figlio, a non tollerare atteggiamenti di disimpegno, oggi i genitori sono sempre e comunque dalla parte dei figli nel giustificare l’assenza da scuola anche per andare in montagna, l’impreparazione in una o più materie per le ragioni più banali, a contrastare i richiami al dovere dei professori. Credo che tutto ciò sia ben fotografato da una simpatica vignetta che ho letto qualche giorno fa su un settimanale: in una stanza due bambinette di otto-nove anni sono sedute sul pavimento e fanno andare a tutto volume un mangianastri. Si affaccia alla porta un signore, padre di una delle due, che apostrofa la figlia con queste parole: “Ma se continui a fare andare la musica a tutto volume, come pretendi che faccia i tuoi compiti?”.
Per i figli del benessere la facilità è procurata dai genitori che evitano loro ogni difficoltà: cercano di evitare le difficoltà che essi hanno vissuto da ragazzi, ma evitano per loro anche quel sano conflitto generazionale, che porta all’autonomia creando così figli ribelli e arroganti convinti di avere “diritto” al successo senza fatica, quel successo facile che crea idoli improvvisati e li demolisce in breve tempo. Non a caso Roberto Benigni, ricevendo l’Oscar, ebbe a ricordare suo padre con queste parole: “Grazie babbo, per la povertà che mi hai dato”.
Anche per i genitori, insomma, vi è una scelta di “facilità” nel rapporto con i figli, perché è difficile dire di no alle richieste dei figli (il motorino, la discoteca fino a notte alta, i capi di abbigliamento firmati, ecc.). Meglio arrendersi ed “accontentare” i figli, piuttosto che dire di no (quei no che pure una diffusa cultura dice che aiutano a crescere) o piuttosto che mediare le soluzioni da attuare. E torna ancora una volta anche qui il discorso della mediazione, quella nuova prospettiva, nella quale molti di noi credono al punto da aver varato una rivista, “Mediares”, che è la prima rivista italiana in tema di mediazione.
Ma esiste e bisogna segnalare anche il profilo della difficoltà come non scelta, come stato di necessità. Non sempre le difficoltà aiutano a crescere perché accanto a quelle che aiutano sia i singoli che l’umanità a progredire, ve ne sono altre insuperabili. E allora la difficoltà produce i tanti infelici della terra, i “vinti”: i bambini impiegati nel lavoro nero o resi schiavi per il loro sfruttamento nella prostituzione, nella pornografia e turismo sessuale, i bambini-kamikaze, che per 25 euro accettano di farsi esplodere; i bambini degli istituti assistenziali che tuttora vivono senza affetti, lontani dalla famiglia e così via. E alle loro spalle sono le loro famiglie, anch’esse ovviamente “vinte”: gli sfruttati, i senza lavoro, i portatori di disturbi psichici, di incapacità educative, di disturbi della socializzazione.
Questa doppia prospettiva si ritrova nel discorso che riguarda il tema del disagio e della devianza minorile. Anche qui si coglie la prospettiva della “facilità”: nel guadagno facile che proviene dalla consumazione dello scippo, dal furto in appartamento”, dallo spaccio di droga. E vi è una costante escalation in tale “facilità”: da un lato si rivela che il vecchio furto del motorino per fare un giro e abbandonare il mezzo non esiste più, ma sia esso, sia quello di auto è diventata estorsione, in quanto per la restituzione del veicolo viene richiesto il’ pagamento di un “riscatto”. Dall’altra, la malavita organizzata assolda minorenni e ragazzi, per lo più con il beneplacito dei genitori, per lo spaccio di droga ‘e, se sono più piccoli, per fare le vedette nei mercati della droga. Li assolda quando sono svegli e intraprendenti come baby killer o guardaspalle dei boss mafiosi. Ed anche qui, la crescita del mito della facilità tocca sia i figli che i genitori. Quello che si è detto in precedenza a proposito dei figli del benessere riguarda in realtà anche il mondo della devianza minorile. In passato i genitori si lamentavano della vivacità dei figli, dei loro piccoli reati, della loro aggressività verso i coetanei e chiedevano severità ai giudici e agli assistenti sociali ministeriali che li seguivano. Oggi i genitori giustificano tutto dei figli: anche il fatto incredibile che i cd. ragazzi “cantori”, quelli che facendo da vedetta ai mercati della droga, cantano per dare notizia dell’arrivo della polizia, impediscano l’accesso nella zona agli assistenti sociali del Ministero, chiedendo loro di identificarsi con l’esibizione del tesserino per accertare che non siano poliziotti in borghese. Tutto ciò mentre i loro genitori vengono in tribunale accompagnati dai difensori del clan che ha assoldato il figlio ed esibiscono l’ultimo modello di cellulare regalato gli dal figlio con i suoi guadagni derivanti . dall’illecito.
Ma il fallimento delle scorciatoie verso illusori traguardi di successo e di emancipazione sociale è testimoniato dall’ampia area dell’altro profilo della devianza, nel quale la scelta delle facilità si rivela scelta di distruzione personale allargata alla famiglia: tossicodipendenti incapaci di qualunque gestione di se stessi, devianti che compiono il cammino della marginalità che li porta in carcere e all’esclusione sociale.
Per questi ultimi, spesso, la “scelta della facilità” è in realtà un pesante condizionamento psicologico e/o ambientale: un ragazzo formatosi a questa scuola perde la capacità di stare in classe per cinque ore difilate, perde quella di fare un lavoro continuo in fabbrica; perde lo spirito di sacrificio che porta alla propria realizzazione. Diventa un predestinato ad una vita senza prospettive.
Tutto ciò è frutto di concrete verifiche operative attuate nell’ambito. dei piani giovani sperimentati già venti anni fa, quando si è posto il problema del reinserimento sociale dei ragazzi detenuti. Esso, infatti, è stato attuato solo puntando ad esperienze lavorative nell’area dell’artigianato, esperienze che, consentendo un rapporto personalizzato con il datore di lavoro, lo propongono in realtà anche come sostitutivo della figura paterna. Così nell’ambito dell’Istituto Ferrante Aporti di Torino si sono promossi corsi per carrozzieri con l’attribuzione dell’incarico ad artigiani titolari di carrozzerie, che si impegnavano poi ad assumere tra i detenuti quelli che dimostravano maggiore disponibilità. Altro percorso è stato quello di costituire laboratori di quartiere come struttura intermedia prima di un inserimento lavorativo. Ma il percorso più utilizzato è la ricerca di un lavoro non impegnativo: da quello di guarda-macchina (o posteggiatore) a quello di manovale. I più fortunati sono quelli che si sono costituiti in cooperative di artigiani (giardinaggio, pulizie delle spiagge): sempre, in ogni caso, attività che non impegnino molto.
Nel recupero sociale abbiamo potuto rilevare che gioca un ruolo importante la realizzazione di un rapporto affettivo stabile. L’ultima speranza di recupero non viene né dagli educatori né dagli assistenti sociali né dal giudice, ma può venire dall’aver realizzato una convivenza; dall’aver progettato un matrimonio sia pure precoce. Quello che può far pensare al futuro un ragazzo, quello che può indurlo a “mettere la testa a posto” è l’idea di mettere su famiglia, il fatto che la sua ragazza sta per avere un figlio.
Quali percorsi di prevenzione tracciare per essere adeguati alle nuove forme di relazioni sociali? Per affrontare questo discorso bisogna partire da due presupposti che tutto quanto si è detto finora porta ad evidenziare e che possono così sintetizzarsi. l) Il primo è che le forme di devianza minorile si stanno modificando fino al punto che non si parla più di devianza, ma di devianze al plurale: ed in particolare che oltre alla devianza tradizionale (costituita dai ragazzi di borgata, dagli emarginati delle periferie, a cui si sono aggiunte nel tempo la devianza dei ragazzi stranieri e al Sud, quelle dei ragazzi della mafia, una devianza che ha un’estrazione per così dire sociopatica, in quanto trae la sua base da disagi ambientati e sociali) se ne è venuta più di recente affiancando una seconda costituita dal malessere del benessere, quella devianza tanto violenta quanto immotivata che ha prodotto la vicenda di Erika e Omar, e altre simili (a Chiavenna, a Castellucio dei Sauri, a Tortona ecc.), e altre devianze quale quella del bullismo e degli ultras e naziskin; una devianza di estrazione caratteropatica o psicopatica. 2) Il secondo presupposto è costituito dalla devianza familiare: a) l’accentuarsi della crisi della famiglia con il vertiginoso aumento di separazioni coniugali e interruzioni di convivenze di fatto; b) la pluralità di modelli familiari (monoparentale, ricostituita, multietnica, adottiva, procreazione assistita); c) la sterilità coniugale; d) i maltrattamenti e gli abusi soprattutto endofamiliari; ed i recenti ripetuti omicidi familiari che fanno parlare di “figlicidi”. In sostanza il disagio familiare, che fino a qualche anno fa era prevalente prerogativa dei ceti più modesti o di quelli molto ricchi, oggi si è esteso in modo massiccio anche nei ceti medi.
Non c’è dubbio allora che ancora una volta la prevenzione non possa non chiamare in causa la famiglia, essendo evidente lo stretto nesso tra devianza minorile e disagio familiare, come sopra descritto.
Tutto ciò deve fare riflettere sulla necessità che si abbia a vari livelli una maggiore attenzione alla condizione minorile ed in particolare all’adolescenza, in relazione alla quale è da tempo in corso un processo di adultizzazione a vari livelli: a) questo atteggiamento si coglie a livello legislativo: mentre si continua giustamente a parlare di adolescenza lunga, dall’altro in Parlamento pendono proposte di legge per ridurre la minore età a 17 anni e quella dell’impunibilità a 13 o 12 anni; b) a livello familiare. Qui è cresciuto il disimpegno verso i figli adolescenti sia nel senso che è aumentato percentualmente il numero degli adolescenti che la famiglia non riesce a gestire e colloca in ambiente esterno, sia nel senso che la maggiore autonomia che il figlio acquista con l’adolescenza induce spesso i genitori a ritenere esauriti a quel punto i loro compiti. Lo conferma il dato relativo alla partecipazione dei genitori ai corsi a loro dedicati e promossi dalla scuola. Man mano che si passa dalla scuola materna a quella superiore il numero dei genitori partecipanti diminuisce al punto che si registrano spesso poche decine di presenze in scuole con mille alunni; c) anche a livello di giustizia, ed in particolare di giustizia minorile, il discorso si fa complesso perché, com’è noto, il progetto di riforma di essa del ministro Castelli che prevedeva una riforma a costo zero e con cancellazione delle caratteristiche di specializzazione e tempo pieno dei giudici, ritenuto incostituzionale dalla Camera dei Deputati e quindi bocciato, sarà ripresentato al Senato dallo stesso ministro.
Bisogna invece tener conto delle nuove più gravi difficoltà di accertare le manifestazioni di disagio quando esse riguardano il ceto medio: la presenza di famiglie insospettabili che tengono gelosamente celate tra le mura domestiche vistose carenze, drammi e reati. Basta ricordare il bellissimo episodio intitolato “Nascondere la spazzatura sotto il tappeto” del film “Scene da un matrimonio” di Ingmar Bergman, per rendersene conto. E’ emblematico l’esplodere di tante tragedie tipo Erika e Omar o tipo quella di Cogne, delle quali, a distanza di anni, si comprende ben poco. E’ emblematico l’emergere di abusi familiari di padri su figli e la difesa a spada tratta dei segreti di famiglia anche in sede processuale.
Sul piano operativo il serio problema è come procedervi.
La strada percorribile è quella della scuola, l’unica agenzia che accompagna costantemente i ragazzi dall’infanzia alla maggiore età.
Ed allora diventa importante dotare i docenti di un “orecchio” qualificato, di una professionalità ulteriore che consenta loro di cogliere i sintomi del disagio familiare.”
Occorre quindi una professionalità più ricca degli insegnanti: frutto non di generiche conferenze sull’adolescenza, ma di specifici corsi che li aiutino a leggere la realtà, a conoscere più approfonditamente i loro alunni e le problematiche di cui sono portatori. E’ necessario essere attrezzati a somministrare questionari utili, proporre temi da cui possano emergere disagi, ecc. .
a) Per gli insegnanti, sia ben chiaro, non vuol dire ingerirsi in fatti di altri: bisogna dire finalmente basta alla tradizionale distinzione tra “scuola” e “famiglia” che poneva gli insegnanti nel ruolo di coloro che somministrano un’istruzione, senza nulla conoscere dei ragazzi con cui vivono per anni, e la famiglia che tende a rinchiudersi nella gelosa tutela della sua privacy. La tutela dei diritti dei bambini ha bisogno di grande rispetto per loro e per le famiglie e di grande riservatezza, ma anche di decisione e del coraggio di superare la logica omertosa del farsi i fatti propri.
b) Il passo ulteriore deve essere il collegamento della scuola con i servizi sociali. Deve trattarsi di servizi sociali specializzati e integrati da esperti di diritto che aiutino nell’assicurare il pieno rispetto delle regole giuridiche. Ma deve puntarsi senz’altro su loro, consapevoli del fatto che il loro intervento, se valido, produce effetti importanti.
In un recente convegno svolto si a Firenze, Massimo Ammanniti ha riferito di una recente esperienza di home visiting, effettuata negli Stati Uniti. La periodicità e continuità degli incontri - effettuata in relazione a vicende di maltrattamento - ha prodotto l’effetto di far cessare la violenza, di facilitare l’autonomizzazione del sistema familiare, di consentire il miglioramento del livello scolastico dei genitori. Forse conoscere queste esperienze e verificarne l’eventuale possibilità di applicazione al nostro contesto potrebbe essere utile.
c) Ovviamente l’ultima stazione di questo percorso riguarda il giudice ed il suo intervento in caso di segnalazione da parte dei servizi sociali. lo ritengo che vada ampiamente recuperato lo spazio dell’intervento relativo alla cd. competenza amministrativa dei tribunali per i minorenni, quella relativa alla gestione non penale del disagio minorile.
Ritengo che la via da seguire debba essere quella dell’utilizzazione di interventi diretti a responsabilizzare i ragazzi difficili, ma anche a sostenere e seguire i genitori e l’intero nucleo familiare. Lo scopo deve essere la loro responsabilizzazione. Il modello di percorso a cui l’intervento deve ispirarsi deve essere quello della messa alla prova utilizzata nel processo penale minorile. Un intervento da realizzarsi in via domiciliare, ma che può prevedere alternative anche per brevi periodi, ma sempre sulla base di progetti partecipati.
Un intervento che potrà prevedere spazi per la mediazione e per l’aiuto alle vittime.
d) Ma è anche essenziale che il nodo giustizia venga risolto in modo corretto e che quello della giustizia minorile in particolare parta dalla presa di coscienza dell’emergere delle nuove e complesse difficoltà familiari non meno gravi delle altre ma più difficili da cogliersi perché nascoste e meno percepibili se non si è adeguatamente preparati.
Solo un consenso generale di fondo su queste prospettive potrà rendere praticabile la realizzazione delle linee programmati che descritte.
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