1/2006 | |
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Il libro strumento di socializzazione Un’esperienza pedagogica attraverso il teatro
Al laboratorio teatrale 334 il punto centrale della nostra ricerca pedagogica ed espressiva riguarda come restituire fisicità, corporeità, vitalità a concetti, idee, emozioni, pensieri, situazioni, raccontati attraverso la parola scritta: letteratura, poesia, ecc.: il recuperare all’interno di essa le componenti vitali che paiono sempre più sfuggirci. Nel nostro presente, inquinato dal “rumore di fondo”, da tempo assistiamo al fatto che le parole - questo fondamentale strumento di comunicazione - stanno diventando sempre più sterili, vuoti gusci; abusate, tradite, tirate da tutte le parti e per tutti gli scopi, ormai prive di sostanza. Così che, prima ancora di utilizzare la parola come strumento di comunicazione dobbiamo porci la questione di cosa stiamo usando; di quanto possiamo realmente dare e condividere senza rimanere invischiati in meccanismi che bloccano e/o standardizzano ciò che vogliamo comunicare. Per rispondere a queste domande che a noi paiono fondamentali utilizziamo brani di vari autori: scrittori e saggisti. Non certo per sfoggio di erudizione. Semplicemente perché essi parlano di questi argomenti nella maniera secondo noi più precisa, lucida e illuminante. Di certo non saremmo stati capaci di farlo meglio; il nostro compito è tradurre queste limpide visioni in esperienza, perché: “abbiamo bisogno di esperienze, non di teorie stimolanti”. Lo scrittore S. Vassalli parla dell’allontanamento delle parole dalle cose. Diciamo che, all’origine del linguaggio, le parole sono l’equivalente delle cose; anzi, sono le cose. Sono gli Dei (Nomina sunt numina), e poi sono le persone, gli animali, gli alberi, le piante; i mari, i monti e le stelle del cielo. Soltanto in un tempo successivo la sfera delle cose e quella delle parole incominciano a non coincidere più tra di loro. Il rapporto degli antichi con le parole era diverso dal nostro, perché le parole che si usano oggi sono molto più lontane dal loro significato di quelle di un tempo. Ancora non se ne sono separate del tutto, ma ciò che ci restituiscono è un’immagine della realtà sempre più convenzionale e sempre più simbolica; sempre più virtuale. Le parole di un tempo erano le cose, quelle di oggi, al massimo, sono i loro riflessi. La nostra letteratura è la realtà vista attraverso uno specchio, quello della lingua. E il linguista G. Luigi Beccaria aggiunge che “nelle società antiche il vocabolo e il concetto non erano dissociabili, il nome faceva tutt’uno con la cosa. Si trattava di legame reale, sostanziale. Conoscere il nome significava conoscere la cosa. Nel comunicare attraverso la parola in pubblico – lettura, narrazione, discorso, ecc.- dobbiamo considerare questo tipo di ostacolo che si frappone pesantemente nella comunicazione. C’è un modo per recuperare questa distanza? Per stabilire una comunicazione dove le persone riescano a scambiarsi emozioni, oltre a serie di suoni ai quali siamo strabituati e che non riescono a smuovere pressoché nulla del nostro essere più intimo e autentico? Riusciamo a toccare qualcosa oltre la superficie? O siamo condannati alla sterilità comunicativa ed emotiva? Un contributo dal sociologo M. Mc Luhan sulla parola scritta: “il linguaggio verbale è una tecnologia che ha svalutato e diminuito i valori dell’inconscio collettivo. È l’estensione dell’uomo nella parola che permette all’intelletto di staccarsi da una realtà più ampia. Nel divenire alfabeta, viene eliminato dai rapporti dell’uomo con il suo gruppo sociale, quasi tutto il sentimento emozionale collettivo. Ciò è il risultato della rottura improvvisa tra un’esperienza auditiva e una visiva. L’uomo alfabeta subisce una menomazione della sua vita fantastica, emotiva e sensoriale. (Gli strumenti del comunicare pp. 89-96) Quale possibile rimedio a questa riduzione dell’esperienza dell’uomo nel mondo? A questa menomazione dell’emotivo e del sensoriale? La pratica teatrale nella sua artigianalità può forse dare un contributo stimolante. Il lavoro teatrale si basa sulla prassi: sull’azione, che coinvolge la persona intera, nelle sue dimensioni corporea, intellettiva, emotiva, relazionale, allo scopo di riavvicinare le aree della personalità laddove sono lontane, unificare dove c’è separazione, integrare dove è frammentato. I materiali del lavoro teatrale - il corpo e la voce, il movimento e la parola - sono sottoposti a continue verifiche sulle tavole del palcoscenico durante le prove, prima di venire selezionati per diventare Comunicazione in pubblico: devono essere materiali organici, ancora vitalizzati dall’emozione, dalla partecipazione, vibranti di intensità emotiva e sensoriale, altrimenti si resta nel circolo vizioso della comunicazione priva di sostanza. Per ridare vita a qualcosa oggi così in cattiva salute come la parola - in teatro e nelle attività ad esso collegate quali animazione, formazione, insegnamento - il nostro lavoro si rivolge alla ricerca della “Voce del Corpo” (come la definisce U. Galimberti); perché “La parola parlata coinvolge drammaticamente tutti i sensi”. E per fare questo è necessario “ritrovare nella parola la Voce, perché la voce è la coscienza. Nessuna coscienza è possibile senza la voce”. (Il Corpo, p. 93) Vale a dire, recuperare il valore della Voce – elemento organico primario - prima della Parola –strumento sociale e culturale. Significa in concreto educare i corpi e le voci ad estrarre da se stessi e ad esprimere ciò che sentiamo stiamo perdendo oggi nella comunicazione in pubblico: il sentimento emozionale, la meraviglia, la concretezza dell’esperienza, la gioia del condividere con altri, il ri-scoprire “che stare con quelli che ci piacciono può bastare”, come dice W. Withman in una sua bellissima poesia. E’ in questo territorio, e attraverso questo processo di lavoro, che noi cerchiamo le chiavi per una comunicazione che vada oltre il rumore assordante e appiattente che sta erodendo la nostra capacità di “sentire”, di provare emozioni, di vibrare quando ci troviamo di fronte a qualcosa di vitale e di intenso. È chiaro che la questione diventa anche sociale e politica. Perché l’appiattire i messaggi e i contenuti, l’omologare gran parte di ciò che chiamiamo comunicazione in una infinita e ininterrotta striscia rumorosa dove “non è importante ciò che si dice ma solo come lo si dice” è assolutamente funzionale ad un sistema che ha tra i suoi fini primari la riduzione dell’essere umano a consumatore passivo e acritico. Allora il percorso si rivolge all’indietro. A quando la comunicazione orale era il mezzo per conoscere le storie e i fatti, per affascinare ed emozionare. Senza nessun atteggiamento nostalgico o retrò, noi pensiamo appunto che il libro detto, narrato, raccontato, da voci e corpi passati attraverso il percorso esperienziale sopra tracciato, possa divenire un forte strumento di socializzazione proprio perché la narrazione orale ha come obiettivo e finalità il recupero di questi elementi fondamentali e dispone degli strumenti per attuarlo, quando non rimane invischiata nella parola scritta, ma cerca appunto di ritrovare e far vibrare la parola-esperienza: la voce del corpo. Carmine Arvonio |