1/2004 | |
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Angela Nava
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Diana Cesarin - Segreteria nazionale del Movimento di Cooperazione Educativa ggi parole come “cooperazione educativa” vengono utilizzate in modi e con significati assai diversi, possiamo trovarli ad esempio in molti documenti ministeriali. Sento perciò l'esigenza di chiarire i termini, di ripartire dal significato che ha avuto la “cooperazione educativa” nella storia del MCE. Cooperazione significa costruzione di comunità, alternativa alla “trasmissione” nella costruzione della conoscenza a partire dalla pratica delle forme comunicative: la conversazione, la discussione, la corrispondenza, la conferenza, la video conferenza ecc. In Freinet la discussione è momento strutturante di messa in comune e di confronto delle conoscenze per la costruzione di conoscenze comuni. Ancora oggi viene indicata come momento fondante dell'apprendimento. Le tecniche cooperative sono strumenti che creano le condizioni in cui il rapporto con l'altro (tra bambino e adulto, tra bambini) diventa elemento indispensabile dell'apprendimento ed in cui si mettono in comune conoscenze, competenze, abilità in vista di un fine comune e condiviso. La classe cooperativa è l'esperienza di vita che il bambino attraversa insieme ai compagni e al maestro, alla maestra. I significati acquisiti in classe diventano linguaggio del gruppo e conoscenza personale di ciascuno. Oggi, nelle classi sempre più spesso entrano bambini portatori di esperienze, di culture diverse e quindi anche di sistemi di valori, di norme, di regole della vita quotidiana diversi. Bambini che la capacità organizzativa degli insegnanti deve portare a diventare membri attivi di un gruppo nel quale la cultura di ciascuno è contributo prezioso alla costruzione di una conoscenza comune, e questa a sua volta diventa patrimonio di ciascuno nelle forme individuali che egli si va costruendo. Cooperazione educativa significa anche prevedere spazi, tempi, modi diversi di comunicazione, ricettività per modi diversi di esprimersi, accoglimento di un dire completo e complesso, fatto anche di sottintesi, di tracce, di intenzioni, di frammenti, di fili da raccogliere e intrecciare fra loro, perché nessun tentativo di comunicare vada perduto o sia ignorato. Fare le regole. Ogni gruppo classe è parte di un'istituzione e, a sua volta, crea e costituisce una istituzione. Una classe cooperativa è un contesto dove è possibile esercitare la propria creatività sul piano estetico, poetico, manuale, musicale, gestuale, e anche su quello istituzionale: nulla è fissato rigidamente. L'esperienza delle classi organizzate cooperativamente dimostra che i bambini possono essere gli agenti responsabili della loro vita scolastica quando se ne offrano loro il diritto e i mezzi. Una vera classe educativa è, per i bambini e per gli insegnanti, il terreno sperimentale dell'educazione alla democrazia. È il “fare le regole”, che caratterizza la classe cooperativa. Regole funzionali e relazionali che procedono da una concezione educativa fondata sull'apprendimento per tatonnement, della libertà, della responsabilità, di diritti e dei doveri in una comunità che applica i principi dell'aiuto reciproco, della solidarietà, dell'autonomia, della cooperazione, dell'autogestione, sia per progetti comuni definiti insieme che per progetti personali. E l'adulto non fa finta, ma rispetta queste regole, ne è il garante, non solo con i bambini, ma con i colleghi, col dirigente, coi genitori, con gli ispettori. L'adulto è anche custode e garante di alcune leggi che preesistono alla costituzione del gruppo: quelle che regolano funzione e struttura della scuola e che, sostanzialmente, non sono negoziabili. A questo proposito, Jean Le Gal, scriveva: “Si tratta essenzialmente della legge del rispetto degli altri” Anche la legge di decisione collettiva in consiglio che è costitutiva di una classe cooperativa, è subordinata alla legge del rispetto. La scuola del far finta. Viviamo oggi in una società nella quale concordemente gli studiosi rilevano un “deficit di etica pubblica”. In ciò un ruolo di non poco conto viene svolto dal familismo all'italiana, che distribuisce diffusamente la convinzione che tutto ciò che si fa nell'interesse familiare è legittimato. Vi è anche un diffuso “far finta”, attraverso cui gli interessi personali vengono interpretati come “bene comune”: troppe volte il far finta pervade prassi e comportamenti all'interno della scuola. Tuttavia la possibilità del superamento della scuola-apparato che si regge sulla sudditanza e sulla de-responsabilità è insita proprio nella scuola dell'autonomia, dove la responsabilità può diventare circolare, dove diversi soggetti sono chiamati a condividere il compito di realizzare il progetto formativo della scuola della comunità, dove si può educare alla cittadinanza e non alla sudditanza . Ma come o quando rendiamo esplicita l'etica che sta alla base del nostro lavoro di insegnanti ed educatori? È accettabile che la parte minuta della nostra professione rimanga inespressa ed implicita? E poi, in pectore, siamo educatori rigidi, “fondamentalisti”, o secolarizziamo i nostri principi? Siamo per una pratica scolastica “amichevole”, o perdiamo la pazienza e ci scappano atteggiamenti rigidi, che poi odiamo? Ed ancora: a che serve una regola? Chi deve applicarla e come? I bambini? L'adulto? Chi è garante della regola e della legge? Bisogna applicare le stesse regole a tutti i bambini, qualunque sia la loro età e il livello di maturità? Domande da tenere sempre aperte, sempre attive nella riflessione sulle nostre pratiche educative. E' importante per insegnanti ed educatori riflettere sulle pratiche che si mettono in atto nei percorsi scolastici che pensiamo mirati alla educazione alla cittadinanza e non alla sudditanza. E riflettere insieme, in modo cooperativo e co-responsabile, su come la micro-comunità della classe pian piano produce le sue leggi interne e si incontra con le leggi delle altre piccole comunità. Dentro il gruppo si può percorrere il passaggio dall'immediato attacco aggressivo alla espressione verbale dei motivi di aggressione. Si arriva così a scoprire la mediazione, la discussione collettiva seguita da una decisione comune, una sorta di democrazia diretta. È importante l'elaborazione del conflitto. Non sono buoni principi impossibili da praticare. Non è una perdita di tempo, come Mario Lodi aveva già ben chiaro parecchi anni fa. Regole che cambiano. Ricordo un intervento di Domenico Canciani, del MCE: “Nella mia classe c'è il motto U.C.T., quando noi andiamo in gita bisogna dire il motto UCT: Uniti, Civili, Tranquilli...è un'etica provvisoria, nella logica di renderla visibile perché se loro non la vedono, non la possono discutere, non la possono interiorizzare, non la possono distruggere, non la possono cambiare”. “Rendere visibile” è il nostro mestiere. Le regole cambiano, ma l'imperativo di cercare queste regole e di farle anche provvisoriamente comuni e condivise, dà il senso del nostro stare insieme”. Anche rompere le regole, opporsi, trasgredire come dice Domenico sono momenti importanti e produttivi nella formazione delle persone: purché intorno vi siano adulti ed educatori capaci di rinegoziare quelle regole e quei limiti o di riconfermarli se necessario, senza abdicare al proprio ruolo, senza ridurlo all'esercizio dell'imposizione. In ogni errore nasce la possibilità di una storia. Non vorrei perdere l'occasione di riflettere su un particolare caso di trasgressione, di non applicazione delle regole: il caso dell'errore. E, più precisamente, sull'insegnamento di quel grande maestro che è stato Gianni Rodari in merito all'errore creativo: diventando turisti della fantasia che esplorano il paese di “Lamponia” inventato da un errore di battitura di “Lapponia”, usando gli errori ortografici per dar luogo a ogni sorta di storie comiche e istruttive, sbagliando le storie, facendo un'insalata di favole o reinventando le fiabe alla rovescia. In ogni errore nasce la possibilità di una storia, dice Gianni Rodari: può essere utile usare questo insegnamento anche per affrontare errori di altri tipo, sregolatezze, trasgressioni, irregolarità? Marco Rossi Doria (il maestro di Napoli che si occupa di drop-out, di quei ragazzi cioè che con le regole e l'ordine della scuola hanno avuto un impatto o un'estraneità tale da risultarne espulsi o dispersi) conosce bene la strada che da un errore, da una situazione di rottura delle regole, porta a una storia o quanto meno a una possibilità di comunicazione. Nel discutere spesso concitato che si fa intorno ai provvedimenti di riforma scolastica dell'attuale governo, spesso irrispettoso delle regole, perfino di quelle della buona educazione, sarebbe utile se entrassero queste problematiche, che sono invece sbrigativamente liquidate con la reintroduzione del voto in condotta nonché oscurate dall'enfasi sulla personalizzazione: per tenere davvero al centro il bambino, la bambina e aiutarli a interiorizzare le regole attraverso le quali si cresce e si impara insieme agli altri, ma anche a inventare e a crearne di nuove per rinnovare l'esercizio della cittadinanza, per costruire la consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri e anche del fatto che i diritti o sono di tutti o si chiamano privilegi. (sintesi non rivista dall’autore) |