1/2004 | |
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Angela Nava
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Ovvero sulla responsabilità di educare alla scelta. Antonio Erbetta - Professore di Storia dell’educazione europea, Università di Torino n principio sta il comando pedagogico: sii te stesso! Eppure solo una colpevole ingenuità permette di vedere in quest’idea, metodologica e regolativa, una facile e felice promessa di libertà. Se è vero, infatti, che il processo formativo è “l’esperienza vissuta dell’uomo che si fa cultura”, esso implica una segreta rottura esistenziale, che nell’infanzia si configura, prima di ogni altra cosa, come dolorosa scoperta del limite. Nati all’insegna del ‘desiderio di essere dio’, noi tutti, infatti, permaniamo originariamente in una condizione di globalità esistenziale, ovverosia nel bozzolo di una crisalide che ci consente di assorbire il mondo in una soggettività scambiata e ‘sentita’ come totalità: è solo la progressiva scoperta della alterità del mondo, del suo darsi come qualcosa che sta là, fuori e al di là di noi, che ci permette di spezzare il recinto rassicurante del nostro paradiso virtuale. Salvo il fatto di esperire questa nostra concreta presenza storica tramite il dolore inaudito di una perdita secca. Quale il luogo primario di questo trauma vitale? Quello che progressivamente ci costringe all’esercizio della scelta. Dove ‘scegliere’ non è altro che esperire il mondo nella sua frammentarietà. E dove io stesso, scoprendo la negazione della mia totalità, scopro contemporaneamente la responsabilità di sapermi libero. Di qui il ‘dolore’ di educarsi. Ma di qui anche l’aurorale moralità di una vita soggettiva capace di trasformare il proprio essere gettato nel mondo in progetto, ovverosia in un sistema di regole che, tramite la dialettica norma/trasgressione, mi costringe ad assumere, con quella mia responsabilità, la speranza di diventare “figlio del cielo” e così di dare senso alla mia vita e al mondo. Dire, con ciò, che il processo formativo è in primo luogo strutturazione della coscienza morale, significa tornare al comando originario - sii te stesso - nella consapevolezza che esso ci impone, non già di “essere” quanto piuttosto di “diventare” ciò che si è. Ed è questo divenire se stessi che, imponendoci la responsabilità costante e progressiva della decisione e della scelta, ci consente contemporaneamente di realizzare la nostra possibilità di vita. Come a dire: diventare qualcuno e qualcosa vincendo la tentazione di non essere nulla restando nel tutto. In questo senso, allora, educare alla scelta significa, forse, impedire al nostro originario “desiderio di essere dio” di trasformarsi - eludendo il dolore di sapersi nel limite - in quel “delirio di essere dio” che connota, in ultima istanza, la mancata possibilità di crescere uomo. Donde l’attualità di una l’inquietante domanda: custodire crisalidi, esonerandole dal trauma della libertà, non è forse il modo più sottile e tracotante di esercitare il dominio? (sintesi non rivista dall’autore) |